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Quando la Germania (ovest) si riscoprì popolo

Marco Ballestracci

C’è una partita della Coppa Rimet o della Coppa del mondo che rivela in modo indelebile il momento storico in cui si svolge? La finale del Mondiale 1954

Presumo possa essere una domanda che sorge spontanea quando si profilano all’orizzonte i mondiali di calcio. C’è una partita della Coppa Rimet o della Coppa Fifa che rivela in modo indelebile il momento storico in cui si svolge? In altre parole c’è un incontro di calcio dei mondiali che sia paragonabile all’elevazione del pugno guantato di Tommy Smith e di John Carlos? Non ci si sta riferendo perciò alla mera conduzione “accomodante” dal punto di vista politico d’un torneo mondiale: per citare i due esempi più eclatanti Italia 1934 e Argentina 1978, in cui ci si adoperò per ottenere un certo risultato sportivo, quanto piuttosto a una partita che sia una vera e propria epifania storica dei tempi.

  

A scrutare bene ce n’è una sola, che fu così sorprendente nel risultato da meritarsi il soprannome di “Miracolo di Berna” e che è null’altro che la finale del campionato del mondo 1954 in Svizzera in cui la Germania Ovest batté la Grande Ungheria di Puskas, Hidegkuti e Bozsik – l’Aranycsapat, la Squadra d’Oro – per 3 a 2.

  

Tuttavia è un po’ da poveri di spirito limitare l’epiteto di “Miracolo di Berna” al solo risultato perché, se ci si sofferma un poco, pare proprio che la storia avesse stabilito un preciso appuntamento il 4 luglio 1954 sul prato dello Stadio Wankdorf.

  

Innanzitutto c’era il paese ospitante, la Svizzera, scelta apposta per la prima edizione europea dopo la seconda guerra mondiale perché la sua neutralità aveva accomodato praticamente tutti: che fossero alleati, ebrei, collaborazionisti, nazisti e persino comunisti in esilio. Poi c’era l’Ungheria che era stata alleata dei tedeschi e degli italiani durante l’invasione della Jugoslavia e della Russia nel 1941, ma che poi era stata occupata durante la controffensiva dall’Armata Rossa in marcia verso ovest e che era finita nel coacervo dei paesi che da lì a breve avrebbero sancito l’appartenenza al Patto di Varsavia. Infine la Germania, riammessa alle competizioni ufficiali nonostante rimbombasse degli echi dell’epilogo del Processo di Norimberga e fosse ancora tormentata dai processi satelliti che riguardavano i crimini di guerra.

  

Tutto questo incredibile scenario europeo post bellico era racchiuso il 4 luglio 1954 dentro il rettangolo di gioco dello stadio di Berna.

 

Lo svolgimento dell’incontro ha un’importanza relativa, anche se la partita fu davvero bellissima e vibrante, con Toni Turek – il portiere tedesco, grande protagonista della finale – che, a imperitura memoria, conservava nella scatola cranica (e la conservò fino alla morte) una scheggia di mortaio, conficcatasi là durante la grande battaglia di carri armati di Kursk.

  

Ugualmente hanno importanza molto relativa le polemiche sulla formula del torneo e sul ventilato doping della squadra tedesca.

  

Ciò che davvero importa sono le testimonianze dei tifosi che giunsero dalla Germania alla spicciolata e si sedettero quasi in incognito sulle tribune dello Stadio Wankdorf.

 

“Non potrò mai dimenticare quel giorno. Quando l’arbitro fischiò la fine ci guardammo stupefatti. Cominciammo ad abbracciarci, a gridare e a sventolare la bandiera tedesca che avevano nascosto per tutta la partita nella stretta fessura tra le nostre schiene e la gradinata. Nessuno doveva sapere che allo stadio c’erano bandiere della Germania. Mentre le agitavamo ci guardavamo e non potevamo credere ai nostri occhi. Il tricolore sventolava. Era dalla fine della guerra che non accadeva una cosa simile perché nessuno aveva il coraggio di far vedere che era contento. Ci vergognavamo di ciò che la Germania era stata. Invece a Berna parevamo impazziti e, per la prima volta, non ci sentimmo in colpa di dimostrare tutta la nostra gioia nonostante fossimo tedeschi”.

 

E’ questa la natura più profonda del “Miracolo di Berna”: il giorno in cui un paese intero, almeno per un poco, poté liberarsi dal più spietato dei sensi di colpa.

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