3 dicembre 2018 - 11:07

George H. Bush, uova e carezze nell’ora dell’addio: «Vi voglio bene»

L’amico di una vita James Baker ha raccontato i giorni del commiato. Le ostriche al ristorante, le domande sull’al di là, le telefonate con i figli: «Voglio andare in paradiso»

di Michele Farina

George H. Bush, uova e carezze nell’ora dell’addio: «Vi voglio bene»
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Negli ultimi giorni George H. Bush aveva smesso di mangiare, era quasi sempre addormentato. Aveva capito, era pronto. Il suo vecchio amico James Baker è passato a trovarlo venerdì mattina, la mattina del suo ultimo giorno. Il vecchio presidente ha aperto gli occhi: «Where are we going, Bake?». E l’amico di una vita soprannominato Bake, l’avvocato di 88 anni che era diventato ministro degli Esteri quando l’ex petroliere arrivò alla Casa Bianca nel 1989, ha risposto senza incertezze: «We’re going to heaven». Dal suo letto il novantaquattrenne con il Parkinson, che da tempo aveva smesso di camminare, ha chiuso il discorso: «That’s where I want to go».

Camera ardente

Mentre si apre la camera ardente al Campidoglio di Washington, arrivano i racconti sugli ultimi giorni e sulle ore finali di George H. Bush. Al di là del personaggio, al di là dell’eredità buona o cattiva che lascia un leader che muore dopo aver scritto un pezzo della storia mondiale, le parole e i gesti di un vita giunta alla foce sono comunque affascinanti.

Passaggio dolce

«Dove stiamo andando, Bake?». «Andiamo in paradiso». «E’ il posto dove voglio andare». Due amici, due anziani: domande semplici e impellenti sul futuro e risposte per qualcuno problematiche, per altri scontate. James Baker ha raccontato l’ultimissimo Bush ai media americani: «Se n’è andato nella maniera più dolce che si possa immaginare». Nella stanza del patriarca, nella residenza di Houston, Texas, c’era uno dei figli, Neil, con la moglie Maria e il figlio Pierce. C’era la nipote Marshall. Poi Bake con la moglie Susan, due dottori, un paio di caregiver. Il reverendo Russell Levenson della Chiesa Episcopale, che per 11 anni è stato il suo pastore, ha detto che Bush «aveva voglia di essere di nuovo con Barbara e con Robin».

Con Robin e Barbara

Robin, la figlia morta di tumore all’età di tre anni, una vita fa. E Barbara, la donna che per 73 anni George ha avuto al fianco. Dopo la scomparsa della moglie, nella primavera di quest’anno, Bush aveva detto agli amici di non essere ancora pronto a morire. Il veterano della Seconda Guerra Mondiale che si era fatto paracadutare dal cielo per festeggiare gli ultra-ottant’anni voleva farsi un’altra estate nel buen retiro di famiglia a Kennebunkport, nel Maine, dove al tempo della Guerra del Golfo riuniva i fedelissimi sulla terrazza di fronte all’oceano.

«Voglio vivere cent’anni»

In autunno, al suo ritorno in Texas, la sua vitalità ha cominciato a scemare. Un paio di settimane fa «Bake» l’ha portato fuori a mangiare le ostriche: «Da lì in poi è cominciata una discesa rapida», ha detto Baker al New York Times. Pochi giorni dopo le ostriche, l’amico va a casa sua e lo trova seduto sulla sedia a rotelle, in biblioteca. Bevono qualcosa. Baker lo provoca usando il soprannome in spagnolo: «Jefe, vuoi vivere fino a 100 anni?». Il capo risponde: «Sì. Ma non credo di farcela».

L’amico più caro

L’importanza di un amico si vede anche in questi momenti, qundo la foce è in vista. Bake e il suo Jefe, un doppio iniziato una sessantina di anni fa sui campi da tennis di Houston. Bush è accanto a James quando nel 1970 muore Mary, la prima moglie dell’avvocato Baker che da ragazzo aveva simpatie democratiche. Per staccarlo da quel dolore l’ex petroliere chiede all’amico di aiutarlo nella campagna per diventare senatore. Da allora è un intreccio di rapporti pubblici e privati, i barbecue con le famiglie e i summit sulla fine dell’Unione Sovietica, i brindisi per Natale e le manovre per fermare Saddam Hussein.

Piatto preferito

«Era l’uomo più competitivo che abbia mai conosciuto», racconta Baker. E «ha lottato fino all’ultimo giorno». Quell’ultimo venerdì mattina, sembra un copione già visto. Il vecchio sembra risollevarsi. Riprende a mangiare qualcosa. Tre uova alla cocque, uno dei suoi piatti preferiti, uno yogurt, due bevande alla frutta. Sembra il giorno dell’ennesimo ritorno, per un uomo dato per quasi morto parecchie volte. E invece è un commiato.

Le canzoni dell’addio

Intorno alle 19 e 15 i Baker lasciano l’amico a letto, in condizioni accettabili. George parla, è presente. Il tempo di mettersi in macchina, e una telefonata li fa tornare indietro. Un’ora appena e la situazione è precipitata. In casa c’è il tenore irlandese Ronan Tynan, la cui visita preventivata in anticipo diventa un canto finale. Nella camera del vecchio Bush si librano le note di Silent Night, il nostro Astro del Ciel, oltre a quelle di un antico brano in gaelico. «Che ci crediate o no — ha raccontato Baker — mentre il tenore cantava, lui sillabava senza voce le parole».

L’ultima telefonata

«Silent night, holy night. All is calm, all is bright...». Per mezz’ora «Bake» tiene la mano dell’amico, gli strofina dolcemente i piedi. Intanto vengono chiamati al telefono gli altri figli, quelli che non si trovano a Houston perché nessuno si aspettava questa accelerazione. Chiama George W. Bush, «il primogenito inetto», quello che partito come figlio-pecora nera è arrivato a battere il padre sulla via della politica (contro ogni pronostico anche di famiglia) con due mandati alla Casa Bianca.
Il presidente dell’11 settembre è nella sua casa di Dallas, e dal microfono del telefonino arriva la sua voce: «Papà sei stato un grande, ti voglio bene». Il vecchio risponde con quelle che saranno le sue ultime parole, prima che il reverendo intoni l’ultima preghiera, con i presenti inginocchiati intorno al letto, le mani sul corpo del Jefe: «I love you too», ti voglio bene anch’io.

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