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I nuovi schiavi delle palmeras – Il reportage di Alessandro Di Battista (6)

Di Alessandro Di Battista
2 Dicembre 2018

Scrive Eduardo Galeano ne Le vene aperte dell’America Latina: “La storia è un profeta con lo sguardo rivolto all’indietro. Da ciò che fu e contro ciò che fu annuncia ciò che sarà”. Non è difficile capire da dove provenga l’ondata di violenza che colpisce da anni il Guatemala. E non serve andare troppo indietro nel tempo magari agli anni di Pedro de Alvarado o degli altri conquistadores spagnoli. L’anno che ha segnato il destino di questa piccola terra maya è il 1954. Nel 1954 un gruppo di mercenari finanziati dalla Cia entrò dall’Honduras guidato da Castillo Armas – un golpista che si era specializzato alla scuola militare di Fort Leavenworth, nel Kansas – con il compito di buttare giù il legittimo presidente Jacobo Árbenz.

Il 1954 è quindi l’anno in cui, per la prima volta, il popolo guatemalteco alzò gli occhi al cielo non per capire quando sarebbe arrivata la pioggia per i raccolti ma le bombe nordamericane, sganciate perché qualcuno aveva messo in discussione lo strapotere della United Fruit Company, l’attuale Chiquita. Un paio di anni prima del golpe che lo destituì Jacobo Árbenz aveva approvato la riforma agraria. Si trattava di un provvedimento moderato che tuttavia beneficiava oltre 100 mila famiglie di contadini.

La United Fruit Company allora era la padrona indiscussa del Paese. Era proprietaria delle strade, dell’unica ferrovia e di migliaia di ettari di terra, dal Caribe all’Oceano Pacifico. Tuttavia solo l’8% delle terre che possedeva venivano utilizzate. Árbenz decise di rilevare una parte di quelle oziose della Ufco, di pagare un indennizzo all’impresa e di distribuirle ai contadini più poveri. Qualcuno si era permesso in Centramerica, ovvero nel giardino privato del capitalismo nordamericano, di pensare agli interessi del popolo.

Dalla Casa Bianca al quartier generale della Ufco di New Orleans partì l’ordine di stroncare sul nascere un modello che si sarebbe potuto moltiplicare negli altri territori controllati dalle maxi-imprese statunitensi. Qualche anno più tardi Dwight Eisenhower, presidente degli Stati Uniti all’epoca del golpe disse: “Ci siamo dovuti sbarazzare di un governo comunista che aveva preso il potere”. Non è vero, si sbarazzarono solo di un esempio e lo fecero esclusivamente nell’interesse della Ufco.

Una compagnia a capo della Cia

Eisenhower era il presidente, ma chi decise l’operazione fu John Foster Dulles, Segretario di Stato, nonché avvocato della United Fruit Company. Suo fratello, Allen Dulles, prima di diventare direttore della Cia e occuparsi della destituzione di Árbenz aveva fatto parte del consiglio di amministrazione della Ufco. Il suo predecessore, Walter Bedell Smith, passò dalla Cia alla Ufco dopo aver lavorato nel governo Eisenhower proprio durante il golpe. Nessuna azienda aveva mai avuto una tale influenza sulla Casa Bianca. John Moors Cabot, Sottosegretario di Stato nel 1954, era azionista della Ufco mentre suo fratello Thomas per anni ne era stato direttore. Si dice che la United Fruit Company sia stato uno strumento in mano alla Cia per indirizzare le scelte politiche di decine di governi centro e sudamericani ma non è vero. Semmai è stato l’esatto contrario. Furono le consulenze ben pagate dal colosso delle banane a politici e funzionari nordamericani a segnare il destino del Guatemala. Nel 1954 il latifondismo trionfò e da allora nessun governo guatemalteco l’ha più messo in discussione.

L’accentramento della proprietà della terra in poche mani è alla base della migrazione di centinaia di migliaia di guatemaltechi. La loro è una storia di fuga. Fuga dagli spagnoli, dalle vendette degli uomini della Ufco, dai massacri a opera dell’esercito, dall’avidità delle famiglie tedesche padrone delle terre migliori dell’Alta Verapaz, la regione dove si coltiva uno dei migliori caffè centroamericani. Fuga dalla campagna verso le miserie delle periferie urbane; fuga dalle bande criminali delle città; fuga dalle piantagioni di palma africana dove esiste ancora la schiavitù e fuga verso il primo mondo, quello dove sugli scaffali dei supermercati ci sono prodotti che sfoggiano la scritta “Senza olio di palma”. Dalle nostre parti cresce la sensibilità su ciò che mangiamo. Sempre più cittadini conoscono i rischi per il sistema cardiaco dovuti all’abuso di prodotti contenenti olio di palma e questo è un bene. Allo stesso tempo sarebbe un bene sapere ciò che provoca l’olio di palma non soltanto sulla nostra salute ma su quella del pianeta.

La sicurezza privata attorno alle palmeras

Sayaxché è una piccola cittadina del Petén, la regione più settentrionale del Guatemala. È situata su una sponda del Río La Pasión, il fiume che unendosi al Río Negro dà inizio al Río Usumacinta. Non ci sono ponti sul Río La Pasión. Per arrivarci occorre salire su una chiatta sgangherata che fa avanti e indietro tra le sponde tutto il giorno. L’ultima volta che venni a Sayaxché era il 2011. All’epoca ero alla ricerca di informazioni sull’origine del fenomeno del sicariato. Già allora in pochi avevano voglia di parlare. Nelle comunità intorno alla cittadina gli uomini della sicurezza privata delle palmeras, le aziende proprietarie delle piantagioni di palma, avevano fatto il bello e il cattivo tempo. Avevano minacciato tutti coloro che si erano opposti alla vendita della terra. Oggi disincanto e paura sono cresciuti ancora. La disillusione è dovuta al fatto che nonostante decine di giornalisti siano venuti da queste parti per raccontare la desertificazione economica dovuta alle palmeras e le violenze commesse dai loro tirapiedi, nulla è cambiato.

La paura è cresciuta ancor di più da quando Rigoberto Lima Choc, un maestro indigeno che aveva denunciato il coinvolgimento della Reforestadora de Palma de Petén (Repsa) nell’ecocidio che nel 2015 aveva causato la morte di centinaia di migliaia di pesci nel Río La Pasión, venne assassinato a colpi d’arma da fuoco proprio nel centro di Sayaxché. Oggi non parla quasi più nessuno, risparmiano il fiato per il cammino che prima o poi in molti pensano di intraprendere, direzione Stati Uniti. Meglio metter da parte qualche denaro da dare ai coyotes, i trafficanti di uomini, che combattere contro i proprietari terrieri. Il latifondo ha vinto nel 1954 e ha ribadito la sua vittoria dal 1996, anno della firma della pace tra esercito e guerriglia, fino ai giorni nostri.

I militari, gli stessi che avevano svenduto il futuro dei guatemaltechi alla Ufco, ormai da anni hanno annusato i nuovi business: quello della coltivazione della palma e quello della sicurezza privata. Sono loro che dettano legge nel campo. Sono loro i burattinai che muovono i fili a Jimmy Morales, l’attuale presidente del Guatemala. E sono alcuni di loro a dare l’ordine ai reparti che operano nelle zone calde del Paese di voltarsi dall’altra parte quando un carico di droga sta per passare. È il segreto di Pulcinella. Inoltre, molte delle imprese che forniscono sicurezza privata alle multinazionali o alle grandi aziende straniere sono in mano agli stessi militari. E fino a che il Paese sarà travolto dalla violenza perpetrata dalle pandillas, le bande criminali che infestano Guatemala City, Quetzaltenango o San Benito, per loro il profitto non mancherà. Ogni albergo o ristorante di un certo livello, ogni farmacia, ogni supermercato, ogni fast-food, ogni camion che trasporta bibite o fusti di acqua è protetto da un paio di uomini armati con fucili a pompa. Il più delle volte si tratta di poveri cristi che non hanno alcuna esperienza e che sono i primi a morire nei confronti a fuoco con i pandilleros. Sono i soliti poveracci che prima vengono sbattuti fuori dai loro campi perché le imprese dell’agro-business – alcune delle quali sotto il controllo dei militari – si prendono le loro terre e poi trovano lavoro solo se sono disposti a rischiare la vita con un fucile in mano e respirare lo smog delle città, proprio loro che erano abituati a vivere nei campi e ad avere in mano solo un machete.

La colonna dei disperati in marcia verso gli Usa

Anche le palmeras si affidano a uomini armati, ma non perché interessi loro la sicurezza, quel che interessa è intimidire. Basta mettere in giro la voce, vera o falsa che sia, che chi difende i patron dalle rivendicazioni salariali dei contadini è un ex kaibil, e il gioco è fatto. I kaibiles sono soldati d’élite dell’esercito guatemalteco. La scuola Kaibil venne aperta dal ministero della Difesa nel 1974. I centri di addestramento erano in Petén, uno a Poptun e l’altro a Melchor de Mencos, al confine con il Belize. I kaibiles furono decisivi durante la guerra civile, fino alla loro comparsa la guerriglia inanellava successi su successi. Poi, la loro incredibile preparazione militare e la violenza inaudita a danno della popolazione, cambiarono l’esito del conflitto fino a indurre i guerriglieri stessi a firmare gli accordi di pace.

Il Petén continua a sfornare ogni anno decine di kaibiles, ma non tutti vanno a rinfoltire l’esercito guatemalteco. Alcuni, i più spregiudicati, si lasciano ingolosire dai narcodollari e diventano sicari dei trafficanti di droga messicani e guatemaltechi. Altri, per vivere più serenamente guadagnando più o meno le stesse cifre, accettano le offerte delle palmeras. Negli ultimi 20 anni sono stati alcuni di loro a recapitare ai contadini indigeni di Sayaxchè offerte che non si potevano rifiutare per costringerli a vendere le loro terre a prezzi stracciati. Negli anni ‘80 migliaia di indigeni q’eqchi’ sono stati obbligati dall’esercito, e dagli stessi kaibiles, a lasciare le loro comunità nel Quiché o in Alta Verapaz e a fuggire lontano. Hanno trovato un briciolo di tranquillità proprio nel territorio di Sayaxchè, all’epoca ricoperto dalla foresta tropicale. Hanno lavorato sodo, iniziando a coltivare mais e fagioli. Poi arrivarono le palmeras, le solite oligarchie e i soliti militari. Le imprese della palma africana utilizzarono infidi espedienti per ottenere la terra in mano agli indigeni. Comprarono le terre agli estremi delle proprietà nelle mani dei contadini a prezzi molto alti. Una volta circondate le comunità indigene, iniziarono a impedire il passaggio ai contadini rendendo loro la vita impossibile e costringendoli a vendere le terre collocate al centro, ovvero gli appezzamenti più grandi, a prezzi bassissimi.

Secoli fa erano stati gli spagnoli a cingere d’assedio i villaggi maya. Negli ultimi venti anni ci hanno pensato la Tikiindustrias, la Repsa, la Palmas del Ixcán, la Nacional Agro Industrial (Naisa). Negli ultimi venti anni migliaia di piccoli agricoltori guatemaltechi, certamente poveri, ma capaci di coltivare da sé il cibo sufficiente a sopravvivere, si sono trasformati negli schiavi delle palmeras e oggi sono costretti a lavorare 14 ore al giorno su campi che producono frutti che non si possono mangiare.

Frutti il cui olio ormai viene respinto dall’industria alimentare ma non da quella cosmetica o da coloro che producono bio-carburante. Che vergogna, per produrre bio-carburante si stanno distruggendo centinaia di migliaia di ettari di foresta vergine, costringendo alla fuga centinaia di migliaia di contadini, ovvero coloro che più di tutti hanno le capacità di raffreddare il pianeta.

Le monocolture nel sud del mondo sono una delle cause dei fenomeni migratori i quali non hanno solo a che fare con la perdita del diritto a stare a casa propria ma anche con la perdita di identità. È tutto interconnesso, i narcos, le pandillas, i fenomeni migratori, il latifondismo, la povertà nei campi, la diffusione dell’alcol tra i più poveri del Centramerica. Anche il più becero xenofobo nostrano, vedendo come vivono le persone nei bassifondi di Città del Guatemala o in quali condizioni lavorano molti indigeni nelle palmeras di Sayaxchè, non potrebbe non giustificare gli esodi di massa. Tuttavia non potrà mai essere l’abbandono della propria casa la soluzione per riprendersi la dignità perduta. Così come non saranno le barriere, i muri, i pugni duri o la chiusura dei porti a ridurre i flussi migratori. Approvare un piano energetico nazionale basato sulle rinnovabili è da considerarsi un atto di politica estera. La lotta per la sovranità energetica andrà di pari passo con le lotte pacifiste del prossimo secolo. Così come combattere per la sovranità alimentare sarà decisivo per la giustizia sociale nel primo o nel terzo mondo.

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