30 novembre 2018 - 21:19

La nostra discesa
dal tram dei desideri

Dopo 14 trimestri consecutivi di crescita siamo costretti ad archiviare il termine «ripresa» e obbligati, ahinoi, a riflettere sui rischi di recessione

di Dario Di Vico

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Alla fine il segno meno purtroppo è arrivato. Dopo 14 trimestri consecutivi
di crescita siamo costretti ad archiviare il termine «ripresa»
e obbligati, ahinoi, a riflettere sui rischi di recessione. Solo a settembre sembrava un’esagerazione polemica a mo’ di gufi, oggi è diventato un tema
di strettissima attualità. Poi magari sceglieremo di mitigare il sostantivo recessione con qualche aggettivo meno impietoso ma la sostanza è questa.
La correzione dell’Istat che porta il Pil del terzo trimestre a -0,1% segnala un Paese fermo con consumi piatti, investimenti in caduta, risparmio parcheggiato nei conti correnti. E di fronte a questa situazione si staglia il grande equivoco della previsione governativa sul Pil del 2019 a +1,5%. Un escamotage politico-statistico che serviva a giustificare in termini di contabilità la «manovra del popolo» ma che con il passare delle settimane e dei giorni appare sempre di più un clamoroso azzardo. Anche perché spulciando il documento dell’Istat c’è un’affermazione che qualche brivido lo dà: «rispetto al trimestre precedente, il Pil ai prezzi correnti è diminuito dello 0,4% e il corrispondente deflatore è sceso dello 0,3%». Numeri che comportano un effetto di peggioramento del rapporto debito-Pil stimabile tra lo 0,5-0,6%.

Ma proviamo a calare le statistiche nella vita di tutti i giorni e cercare i collegamenti tra andamenti macroeconomici e percorsi della società. Prendiamo i comportamenti delle famiglie. I consumi, come già detto, non sono cresciuti nei mesi scorsi nemmeno per effetto della firma del contratto dei dipendenti pubblici che pure cumulava spettanze arretrate. È vero che l’indice di fiducia dei consumatori resta comunque alto e rimane a livelli molto sostenuti (oltre il 60%) anche il consenso espresso nei sondaggi demoscopici nei confronti dei partiti che compongono la coalizione di governo ma tutto ciò non si è scaricato a terra. Come si spiega? L’ipotesi più verosimile è che il reddito disponibile non si traduca in acquisti e voglia di spendere bensì in risparmio che però a sua volta non viene impiegato ma parcheggiato nei conti correnti bancari. Indice di fiducia e consenso politico non modificano i comportamenti quando si tratta di denaro e tutto concorre a generare quel clima di attendismo che non aiuta la corsa del Pil.

Se dalle famiglie passiamo alle imprese l’analisi dei comportamenti è decisamente più lineare. Innanzitutto va ricordato come siamo in presenza di un frenata della domanda estera e di un contributo dell’export giocoforza rallentato. Per un sistema come il nostro che vive sempre di più sull’integrazione nelle grandi filiere internazionali è un problema non da poco. Ma in più c’è un dato Istat di ieri che balza agli occhi e suona come uno schiaffo: -2,8% delle spese per impianti e macchinari. Gli investimenti per il lungo termine, diciamo pure per il futuro, sono drasticamente calati. Il pensiero va subito a Industria 4.0 e alle amnesie governative in merito ma, vista la rilevanza del tema, vale la pena di capire meglio. Pur sapendo che vi è un’evidente sfasatura temporale tra raccolta ordini e consegne, occorre considerare che anche l’Indice Ucimu degli ordini interni ha registrato un arretramento nel terzo trimestre. E se, a onor del vero, il periodo luglio-settembre è tradizionalmente magro per i costruttori di robot perché comprende lo stop estivo, l’opinione corrente è che si stia chiudendo un ciclo virtuoso di investimenti che ha accompagnato e aiutato la ripresa partita nel 2015. La sensazione è che comunque si sia creato un effetto di polarizzazione tra imprese innovatrici e conservatrici, tra medio-grandi e piccole. La narrazione governativa non ha lavorato per ridurre questo gap di comportamenti, anzi volendo prendere le distanze a tutti i costi dal periodo Calenda in qualche maniera ha autorizzato pigrizie e ripensamenti.

È questo il contesto nel quale bisogna collocare le previsioni sul 2019. È probabile che gli istituti indipendenti di ricerca modifichino il loro giudizio sul Pil italiano. La verità è che tutte le novità che sono intercorse da settembre ad oggi hanno peggiorato lo scenario e messo in evidente difficoltà l’escamotage trovato da Giuseppe Conte e Giovanni Tria. Dopo il responso dell’Istat di ieri però siamo arrivati al capolinea: si deve scendere dal tram dei desideri e dire la verità ai passeggeri.

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