28 novembre 2018 - 17:05

Tornare in Marocco da emigrato? Ci vuole un bel coraggio

Il progetto «Je Suis Migrant» dà 2.000 euro a chi sceglie il rientro. Un incentivo per aprire un’attività. Chi torna spesso viene deriso, ma nascono anche storie di successo

di Pier Luigi Vercesi

Tornare in Marocco da emigrato? Ci vuole un bel coraggio
shadow

Ci vuole coraggio per tornare indietro». Rashid sta guidando l’auto da Casablanca a Oujda, al confine con l’Algeria. Non parla per sentito dire: è anche la sua storia. «Quando attraversi i confini, braccato come un animale, subisci violenze e giochi con il destino salendo su una chiatta per Lampedusa, hai dalla tua la speranza. Se torni senza soldi, sei un fallito. Prima per la tua famiglia, poi per lo Stato affamato di rimesse degli immigrati». Da risorsa, diventi fardello. La ragazza seduta dietro lo interrompe: «Le cose stanno cambiando, Rashid. Il nostro lavoro comincia a dare risultati». Sanda Vantoni ha 26 anni, la sua famiglia vive a Sorisole in provincia di Bergamo. Un anno fa rispose al bando di Servizio civile e il Cefa di Bologna la spedì in Marocco, dove aveva soggiornato alcuni mesi per realizzare la sua tesi di laurea.

Sanda Vantoni
Sanda Vantoni

Lavora al progetto «Je Suis Migrant» per promuovere l’inclusione sociale, contrastare il radicalismo e favorire l’integrazione dei marocchini di ritorno. Per il suo impegno, il Focsiv le ha assegnato il «Premio giovane volontario europeo» 2018. L’abbiamo raggiunta, chiedendole di accompagnarci in questo viaggio tra i migranti di ritorno, ai quali viene assegnato un bonus di 2.000 euro affinché si inventino un lavoro, e tra quelli provenienti dall’Africa nera che interrompono qui il loro cammino della speranza: vengono aiutati ad associarsi in cooperative.

Il primo di loro è proprio Rashid, laurea in Letteratura inglese, poi idraulico in nero nel bresciano rimbalzato in Marocco non per sua volontà ma perché vittima del racket dei matrimoni fasulli per ottenere la cittadinanza italiana. Ora lavora per il Cefa, mette a disposizione la sua esperienza: sa come parlare ai migranti di ritorno, li protegge dal ludibrio di chi li deride, conquistatori incapaci di trovare la terra da conquistare. A Oujda, appoggiata sul confine di filo spinato, un altro Rashid, 33 anni e molti mesi di delusione italiana, è diventato un esempio di successo. Lo ha accompagnato, passo a passo, Federica Gatti (di Alessandria), responsabile del progetto. Con i duemila euro ha comprato pulcini appena nati e li ha rivenduti quando avevano quindici giorni. È andato avanti così finché è riuscito a costruirsi una rudimentale incubatrice con le istruzioni reperite in Internet. Allora è passato alle uova: costano meno, rendono di più. In poco tempo il suo tugurio si è trasformato in una farm dove lavorano i suoi familiari.

Ci racconta la sua storia con gli occhi rasi di lacrime: «Non ho il coraggio di dire a mia moglie che in Italia dormivo in una stazione». Sanda, dopo esperienze universitarie in mezzo mondo, aveva ricevuto una proposta di lavoro interessante a Barcellona, da un’azienda che produce droni. Sei mesi e se ne è andata. Lo racconta mentre l’allevatore di pulcini saluta, stavolta con gli occhi aperti in un sorriso. «Hai capito il perché della mia scelta?», dice. Sarà un caso, ma qui a Oujda 2.000 euro pare facciano miracoli. Saliamo su un taxi, due parole in italiano e Ismail, il taxista, attacca a raccontare. Anche lui emigrato di ritorno: tre anni in Italia e uno in Francia. Diploma di tecnico elettronico, poi contadino e magazziniere in nero, ora padroncino della sua auto. Gli manca l’Italia, ma in Italia gli mancava il Marocco, il profumo di qualcosa di cui conosce solo il nome arabo. Sfrecciamo sulla strada in direzione Mediterraneo, dopo una gola, su un muretto decine di persone urlano e si sbracciano. Quattro metri sotto, in un fossato, corre la rete con il filo spinato. Oltre sventola la bandiera algerina e altre donne e bambini rispondono ai richiami. In mezzo guardie armate e cani poliziotto. «Si danno appuntamento tutte le domeniche» spiega Ismail, «sono famiglie divise dal confine blindato, perché questo era il valico preferito dai passeur, i mercanti di uomini».

Mustafà, con gli aiuti, ha comprato un motore, una pompa e coltiva erba medica in un campo di famiglia. Non è più giovanissimo e ha la schiena spezzata da un paio di lustri passati in un capannone da dove usciva alle 5 di mattina per lavorare la terra di Puglia. «Mia moglie non crede ai racconti. La metto a tacere sempre con lo stesso ritornello: sarò pure uno sconfitto, ma so che il catrame di casa nostra è meglio del miele altrui». In Marocco si ritorna perché incalzati dalla crisi economica europea, perché si è irregolari, anche per nostalgia. Nessuno li obbliga: le associazioni italiane li informano e loro decidono se provare a ricostruirsi una vita nel Paese d’origine.

I 2.000 euro servono, ma uno scoglio insidioso è la capacità di reintegrarsi in un mondo nel frattempo cambiato, tanto più se vi sono bambini nati in Italia. Sanda ci accompagna a una di queste riunione in cui marocchini di ritorno, spesso laureati in sociologia o in filosofia, aiutano a trasfondere valori fondamentali in uomini e donne con scarsa istruzione. Un laureato in giurisprudenza ivoriano precisa: «Radicalizzazione è l’opposto di educazione». Un animatore marocchino chiede: «Quali valori trasmettere ai vostri figli? Immagino tolleranza, contrasto delle discriminazioni...». La prima risposta è fulminante: «Tolleranza? Ma è una parola brutta. Tollera chi si sente superiore, è un atteggiamento paternalistico. Non è meglio confrontarsi senza giudicare?». Sanda si gira e bisbiglia: «Visto? Spesso sono loro a insegnare qualcosa a noi. Quando chiesi a un senegalese se si sentiva discriminato, rispose che tutti noi discriminiamo, in qualsiasi parte del mondo, e continueremo a farlo finché non avremo l’umiltà di aprirci alla conoscenza. Qui c’è gente che a vent’anni ha fatto esperienze di vita che noi nemmeno a sessanta...».

© RIPRODUZIONE RISERVATA
ALTRE NOTIZIE SU CORRIERE.IT