26 novembre 2018 - 11:57

È morto Bernardo Bertolucci, cavaliere di un cinema che non abdicò alle sue ambizioni

Seppe coniugare grande spettacolo ma anche grande cultura, chiave privilegiata per fare i conti con la realtà passando attraverso la forza dei sogni e dell’immaginario

di Paolo Mereghetti

È morto Bernardo Bertolucci, cavaliere di un cinema che non abdicò alle sue ambizioni
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Con Bernardo Bertolucci, scomparso a Roma per le conseguenze di un tumore al sistema linfatico con cui combatteva da tempo, se ne va l’ultimo cavaliere di un cinema che non aveva mai voluto abdicare alle sue ambizioni: di grande spettacolo ma anche di grande cultura, chiave privilegiata per fare i conti con la realtà passando attraverso la forza dei sogni e dell’immaginario. Ma sempre con l’ambizione di superare i limiti della propria ispirazione per spingere la platea a interrogare e interrogarsi, sia che affrontasse i grandi affreschi storici (Novecento, L’ultimo imperatore, Il tè nel deserto, Piccolo Budda, The Dreamers) sia che scavasse nelle contraddizioni dell’animo umano (Strategia del ragno, Ultimo tango a Parigi, La luna, L’assedio, Io e te) sia che si mettesse più personalmente in gioco nel palleggio tra contraddizioni personali e realtà (i suoi film più «piccoli» ma più stimolanti: Prima della rivoluzione, La tragedia di un uomo, Io ballo da sola).

L’amicizia con Pasolini

Nato il 16 marzo 1941 a Parma, figlio del poeta Attilio e fratello maggiore di Giuseppe (anche lui poi regista), Bertolucci segue la famiglia a Roma e si iscrive a lettere alla Sapienza ma l’amicizia con Pasolini, che abitava nel suo stesso condominio e frequentava la famiglia, lo spinge al cinema: assistente sul set di Accattone, passa alla regia nel 1962 con La commare secca, su sceneggiatura dello stesso Pasolini. Ma è con Prima della rivoluzione (1964), selezionato alla Quinzaine des réalisateurs di Cannes nel 1964 che il giovane regista si impone con una riflessione sincera e coraggiosa sulla difficoltà di essere coerente con i propri ideali «rivoluzionari» raccontando le tante contraddizioni di un giovane parmense che vorrebbe ribellarsi al matrimonio imposto dalla famiglia (tentato dall’amore incestuoso per una zia milanese) e «tradire» la propria classe con la militanza politica. Dopo un documentario commissionato dall’Eni intitolato La via del petrolio e Partner (1968) un film troppo debitore delle influenze teatrali del Living sulle due facce di una stessa persona (l’ispirazione viene da Il sosia di Dostoevskij), Bertolucci trova una più compiuta strada espressiva con Strategia del ragno (1970), prodotto dalla Rai a partire da un racconto di Borges che ambienta nella Bassa padana e che anticipa uno dei temi che attraversano tutto il suo cinema futuro: un figlio alla ricerca della vera identità del padre (non a caso entrambi interpretati dallo stesso attore, Giulio Brogi).

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Ultimo tango a Parigi

La complessità umana

Con Il conformista (1970), tratto da Moravia, Bertolucci allarga la sua riflessione sulla complessità umana, le sue ambivalenze (il protagonista Trintignant cerca nel Fascismo la maschera per nascondere la sua temuta omosessualità) ma mette anche a punto uno stile personalissimo dove la lezione della Nouvelle Vague si mescola a una ambizione spettacolare che la fotografia di Vittorio Storaro sa esaltare alla perfezione. Il 1972 è l’anno di Ultimo tango a Parigi, dove si mescolano ancora una volta passioni contraddittorie, memorie cinefile e letterarie (Sade e Bataille si intrecciano a Godard e Vigo), capaci di parlare della solitudine e della distanza fra i sessi. Le ambizioni culturali vennero però messe subito da parte dallo scandalo: la famosa «scena col burro» dove Marlon Brando possiede una inconsapevole Maria Schneider scatenarono pettegolezzi di ogni tipo (e polemiche accesissime, la cui eco ogni tanto torna a farsi sentire) ma soprattutto scatenò la censura italiana che arrivò a ordinare il 29 gennaio 1976 la distruzione del negativo del film, con le conseguenze perdita dei diritti civili per il regista per cinque anni. Bisognerà aspettare il 9 febbraio 1987 perché, «mutato il comune senso del pudore», il film fosse dissequestrato e considerato «non osceno».

Ritratto d’Italia

Forte del successo internazionale, Bertolucci continua a pensare a film sempre più ambiziosi, come le due parti di Novecento (1976), ritratto della storia d’Italia dalla morte di Verdi alla liberazione dal Fascismo letta attraverso le vite di due amici-nemici: il possidente Alfredo Berlinghieri (De Nico) e il contadino Olmo Dalcò (Depardieu). Una lettura ambiziosissima, un affresco «onnipotente e megalomane» (per usare le parole del regista) dove «gettare un ponte tra Hollywood e la MosFilm, cioè tra il americano cinema e il comunismo». Non tutto è perfettamente a punto in questa scommessa cinematografica, ma non si può negare la forza fluviale e coinvolgente di questo film che trova nella forza della terra emiliana (dove il film fu girato) la sua vera ispirazione. Oltre naturalmente alle grandi invenzioni luministiche di Vittorio Storaro. Il film successivo, La luna (1979), assomiglia a una specie di ripiegamento psicoanalitico su se stesso, dopo gli scandali e le ambizioni dei due film precedenti, come se Bertolucci sentisse il bisogno di una «piccola storia» (quella del rapporto tra un figlio e la madre) dove fare i conti anche i grandi amori della sua vita, il cinema e l’opera lirica, Hollywood e Verdi, mai forse così presenti come qui nella sua produzione (la protagonista, interpretata da Jill Clayburg è una cantante lirica e si misura col Trovatore).

Via dall’Italia

Un «piccolo» film è anche La tragedia di un uomo ridicolo (1981), forse la sua opera più sottovalutata, dove il rapimento di un industriale agricolo permette a un regista che si era sempre tenuto lontano dal cinema politico di raccontare con grande lucidità l’Italia di quegli anni, le sue viltà e le sue false coscienze. Il film non ha però successo e Bertolucci sceglie di allontanarsi dall’Italia. Grazie al produttore inglese Jeremy Thomas dirigerà tra film che segnano la sua maturità espressiva e la sua definitiva consacrazione: L’ultimo imperatore (1987) vinse 9 Oscar, tra cui miglior film, regia (l’unico finora vinto da un italiano), sceneggiatura, fotografia e montaggio, raccontando il dramma di una persona che deve fare i conti con la Storia che sta cambiando e che lo costringerà a una vita guidata dagli altri, tra gli invasori giapponesi e i comunisti che prendono il potere in Cina. Con Il tè nel deserto (1990), tratto da Paul Bowles continua la sua «trilogia» lontano dall’Italia, diviso tra la storia di una coppia in crisi e il fascino di una cultura altra, dove il deserto diventa una specie di metafora della crisi e della sconfitta dell’individuo. Conclude questa specie di triplice viaggio culturale Il piccolo Buddha (1993): con la leggerezza di una fiaba il regista racconta un itinerario di avvicinamento alla morte dove l’essenza delle cose sembra stare nella loro transitorietà (il mandala di sabbia che si sfarina nell’ultima scena) e che viene raccontato con un senso di genuina sacralità ma anche una punta di pudore laico.

Leggerezza di tocco

Nel 1996, finalmente, Bertolucci torna a girare in Italia con Io ballo da sola, anche se i protagonisti sono i membri di una comunità di turisti inglesi, quelli dove una ragazza diciannovenne cercherà di trovare le risposte che la vita le sta ponendo. Anche qui c’è la presenza della morte, ma su tutto vince la vitalità della giovane protagonista (affidata a Liv Tyler) che supererà il confine che la separa dall’età adulta. E naturalmente la regia di Bertolucci, capace di trovare una leggerezza di tocco e una delicatezza che hanno ricordato a tutti il Renoir di La regola del gioco. A questo punto, a mettere i bastoni tra le ruote della sua carriera, ci si mette la salute. I dolori alla schiena rallentano la sua mobilità e lo spingono a scegliere soggetti più «piccoli» (ma non meno ambiziosi), prima L’assedio (1988) sull’amore tra un eccentrico musicista inglese e una studentessa africana, poi The Dreamers (2003) su tre ragazzi che si lanciano in esplorazioni sessuali chiusi in casa mentre il maggio francese esplode nelle strade e infine, quando un’operazione non riuscita l’aveva costretto su una sedia a rotelle, Io e te (2012), dove un adolescente e la sua sorellastra nascosti in una cantina-tana si confrontano con i propri buchi neri e trovano forse la forza per tornare ad aprire gli occhi sul mondo.

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