Covid: il bisogno di tornare a una vita normale

Abbiamo compiuto molte legittime forzature per contrastare la pandemia. Lo abbiamo fatto come e più di altri Paesi. Abbiamo ottenuto risultati che ci hanno consentito di frenare il virus. Non credo si possa rimproverare ragionevolmente nulla a chi ha avuto la ventura di affrontare questa sfida. E si è sforzato, nello stesso tempo, di garantire sostegni economici e di promuovere il recupero di prestigio europeo e internazionale dell’Italia. È stato questo il senso del lavoro di Sergio Mattarella e Mario Draghi. Un patrimonio per il Paese che sarebbe assurdo e pericoloso disperdere.

Ma è stato decisivo anche lo sforzo generoso di milioni di italiani, capaci di rimboccarsi le maniche e di rispettare le regole. Così il nostro Paese ha sopportato e ha reagito alla sfida più dura dal dopoguerra. Ma forse ora è il momento di accompagnare allo sforzo di arginare l’epidemia una più chiara e determinata volontà di ritrovare urgentemente la normalità.

Il Paese è stremato. Lo sono gli operatori sanitari, in primo luogo, capaci di sopportare questo tsunami che si è ripetuto a ondate molte, troppe volte in questi ventiquattro mesi. Tanti ne sono ormai passati, dal paziente zero. Ventiquattro mesi. Un periodo troppo lungo, che ha seminato di morte, ansia e fatica la vita dell’intero Paese, che ha portato alla perdita di un numero spropositato di vite umane — ogni giorno è come se cadesse un aereo — e alla scomparsa di posti di lavoro e di imprese, due dimensioni la cui comunità di destino è apparsa evidente in questo terremoto.

I negozi con le saracinesche abbassate ormai dipingono di grigio il panorama urbano, trasmettono quel senso di svuotamento della nostra vita quotidiana che si è impadronito di noi. Le città si vanno spegnendo, anche senza lockdown. Psicologicamente si sta facendo strada un sentimento di rinuncia alla vita collettiva, alla condivisione del tempo e delle esperienze, una propensione a definire lo spazio imposto, la casa, come l’ambito in cui tutto si consuma: il lavoro, l’intrattenimento, la formazione.
   
Come scrivemmo all’inizio della pandemia, misureremo sulla lunga distanza gli effetti di questa dimensione aliena del vivere sui ragazzi e sugli adolescenti. Perdere le prime esperienze di socialità, dalla scuola all’amore, è una ferita la cui portata i genitori e gli insegnanti misurano ogni giorno. I ragazzi che hanno scelto di ripararsi nella dimensione dell’hikikomori, la separazione dal vivere sociale nel bozzolo della propria casa, stano crescendo a dismisura. Stime parziali parlano di centomila persone ormai sparite dal vivere comunitario.

Si moltiplicano tra gli adolescenti i disturbi del sonno, dell’alimentazione, del comportamento fino al limite dell’autolesionismo. Lo riporta drammaticamente una ricerca dell’Università Cattolica di Milano: «Il 40,7% degli adolescenti intervistati ha difficoltà a dare un senso a ciò che prova, il 34% afferma di non essere in grado di controllare il proprio comportamento quando è turbato, il 50% si arrabbia con sé stesso, il 69,3% degli adolescenti afferma che il Covid è diventato parte della propria identità, il 34,7% dice di fare fatica ad addormentarsi».

La perdita della integrità dell’esperienza scolastica, il suo frazionamento e l’incertezza sistemica che ha accompagnato questi due anni hanno pesato non poco. E bene ha fatto il premier Draghi a opporsi tenacemente al ricorso troppo facile alla Dad. Dice giustamente Stefano Vicari, responsabile della neuropsichiatria al Bambino Gesù: «Continuiamo a pensare che la scuola sia solo didattica: questo è un errore gravissimo. La scuola non può essere vista come luogo di preparazione al mondo del lavoro ma come luogo di formazione del carattere e della conoscenza. All’interno della scuola si cresce culturalmente, ma non solo. Ci si riscatta, ci si afferma. Anche chi appartiene a contesti umili, tramite la scuola può studiare e riscattarsi. Se la scuola non c’è, l’affermazione di sé passa attraverso valori negativi: le risse per strada, l’autolesionismo, i litigi violenti, con compagni e genitori. I giovani hanno necessità di ribellarsi, ma più riduciamo gli spazi di possibile “deragliamento”, gli spazi in cui possono infrangere le regole sotto lo stretto controllo dell’adulto — come appunto, le scuole — più queste ribellioni diventano violente».

Le città spente, i negozi chiusi, l’angoscia del lavoro, il turbamento dei giovani. Ora tutti insieme, con lo stesso coraggio con cui si sono imposte le necessarie restrizioni, dovremo affrontare la priorità del ritorno alla normalità. Altri Paesi stanno sperimentando vie che consentano di mettere la testa fuori dal tunnel. Studiamole e applichiamole. Anche rimuovendo qualche prescrizione di troppo, o contraddittoria con altre, e qualche farraginosità.

Dobbiamo estendere le vaccinazioni, rivelatesi decisive, sostenere la scelta delle cure e rafforzare la struttura sanitaria diffusa. Ma dobbiamo accelerare verso la normalità. Verso il ritorno a una vita vivibile. Deve essere questo l’obiettivo di un Paese unito. Ogni misura che verrà assunta di qui in avanti deve essere decisa tenendo conto di questo essenziale parametro. Anche questa è un’emergenza. Dovremo convivere con questo virus. Abituiamoci a farlo.
   Seguendo le regole, ma senza rinunciare a vivere.

23 gennaio 2022, 21:02 - modifica il 23 gennaio 2022 | 21:02

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