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Luiss School of Government

Perché la crisi in Ucraina può scatenare una guerra in Europa

Perché la crisi in Ucraina può scatenare una guerra in Europa
(ansa )

(Policy brief della Luiss School of Government a cura di Carolina de Stefano e Michelangelo Freyrie)

Nonostante il susseguirsi di contatti e incontri, ultimo in ordine di tempo quello in queste ore tra il Segretario di Stato americano Anthony Blinken e il Ministro degli Esteri russo Sergej Lavrov a Ginevra, l’escalation delle tensioni tra Russia e Ucraina delle ultime settimane rischia di sfociare in una guerra.

Le premesse per una simile escalation c’erano da tempo, tuttavia è difficile capire perché la situazione si stia degradando così rapidamente proprio adesso, otto anni dopo lo scoppio della crisi ucraina e un (relativo) congelamento del conflitto nel Donbass. Ha inoltre un che di paradossale il fatto che il massiccio dispiegamento di truppe russe alla frontiera con l’Ucraina negli ultimi mesi abbia coinciso con l’avvio negli Stati Uniti della Presidenza Biden, che si era invece aperta con l’annuncio di un rilancio di negoziati su temi specifici di sicurezza con Mosca dopo il quadriennio trumpiano (in cui lo scandalo della supposta collusione tra il Presidente e Vladimir Putin aveva bloccato, di fatto, qualunque prospettiva di dialogo bilaterale).

Per provare a orientarsi serve ricostruire da un lato perché il Cremlino abbia deciso proprio ora di prepararsi attivamente a un eventuale scontro con l’Ucraina e la NATO, e cosa cerca di ottenere; dall’altro in cosa sia consistita la strategia russa della Casa Bianca e se qualcosa, e cosa, non ha funzionato.

Il perché dell’escalation al confine con l’Ucraina
L’escalation da parte russa è iniziata con l’invio di truppe al confine ucraino nel marzo-aprile 2021, proseguito la scorsa estate e diventato sistematico e su larga scala a partire da novembre (si parla al momento di circa 170 mila unità). Nel frattempo, le relazioni con gli Stati Uniti, già molto tese, si sono ulteriormente degradate. Se a giugno in vista dell’incontro con Biden le due parti si erano trovate lontane su molte posizioni, ma dialoganti sulla questione del controllo degli armamenti, a dicembre Mosca ha presentato agli Stati Uniti un ultimatum per iscritto, richiedendo - ai fini di una de-escalation - che la NATO si impegnasse a negare formalmente l’ingresso dell’Ucraina e della Georgia nell’Alleanza, pur sapendo che la richiesta non avrebbe mai potuto essere accettata.

Stilando una lista non esaustiva, alcuni elementi spiegano il cambio di atteggiamento di Mosca. Il primo, di contesto, è la generale radicalizzazione delle posizioni dell’establishment russo (parallela a un’influenza crescente delle élite militari) che sostiene la necessità di imporre più nettamente, se necessario anche con la forza, la visione revisionista di Mosca per la costruzione di una nuova architettura di sicurezza europea. Il secondo è l’evoluzione della situazione in Ucraina. Negli ultimi mesi il governo di Volodymyr Zelensky ha approvato una serie di leggi che limitano l’utilizzo della lingua e dei media russi e che, di conseguenza, riducono ulteriormente la possibilità che il Donbass russofono venga in futuro reintegrato dall’Ucraina in linea con le condizioni di Mosca inserite nel protocollo di Minsk (al momento l’unico accordo, negoziato da Francia e Germania, a cui è appeso formalmente il destino della regione). In tale contesto, in Russia si discute in queste settimane l’idea di riconoscere le due entità separatiste di Donetsk e Lugansk, cosa che affosserebbe definitivamente l’accordo.

Una ragione centrale per l’escalation, però, è che il governo di Kiev ha progressivamente potenziato il suo esercito e il suo arsenale militare con l’attivo sostegno americano, con la produzione di armi proprie e, da ultimo, grazie all’acquisto di droni turchi, già rivelatisi essenziali per la vittoria lampo dell’Azerbaigian contro l’Armenia nel settembre 2020 in Nagorno-Karabach. A questo punto, il costo per Mosca di mantenere il controllo – già molto ridotto - sulla parte del Donbass in mano alle forze prorusse è diventato più elevato rispetto agli anni precedenti. È plausibile, cioè, che Mosca tema che il governo di Kiev possa di qui a poco provare a, e avere le capacità di, riconquistare i territori al momento in mano ai separatisti. A sua volta, perdere il Donbass significherebbe, oltre che l’ammissione di una sconfitta, facilitare un avvicinamento potenziale dell’Ucraina alla NATO, e questo sebbene tale scenario sia al momento irrealistico e Mosca lo sappia.

La Russia di Putin e l’Amministrazione Biden

Il contesto politico russo e ucraino non è, però, sufficiente a spiegare la crisi attuale senza guardare alle iniziative più recenti dell’Amministrazione Biden e la maniera in cui sono state percepite da Mosca. Rappresentanti delle istituzioni russe, come il vice-ambasciatore presso le Nazioni Unite Dmitrij Poljanskij, si erano mostrati cautamente ottimisti sulla nuova Amministrazione per il suo approccio pragmatico nei confronti della Russia. Evitando la retorica di un “reset” e provvisto di una squadra più coesa e coerente di quella di Trump, il nuovo Presidente ha proposto fin da subito un’agenda di controllo degli armamenti e di stabilità strategica. Ciò non significa che l’Amministrazione Biden abbia rappresentato una rottura totale col passato, anzi. Molte personalità di punta del governo statunitense attuale sono volti noti dell’era Obama, una su tutte la negoziatrice di Ginevra Wendy Sherman.

La percezione russa è stata verosimilmente condizionata anche dalla nomina di Victoria Nuland a Vicesegretario di Stato. Nuland, per anni oggetto di sanzioni da parte della Federazione Russa, è nota per il sostegno dato nel 2014 alla rivoluzione di Euromaidan e per essere per questo diventata il bersaglio preferito della retorica russa che vede nelle «rivoluzioni colorate» un complotto americano. 
Se un miglioramento dei rapporti quindi è sempre sembrato piuttosto improbabile, molti analisti si aspettavano quantomeno una working relationship che reintroducesse un minimo di prevedibilità reciproca fra le parti. I colloqui, che nel corso del 2021 si sono concentrati soprattutto sulla limitazione degli arsenali missilistici in Europa, hanno rappresentato la novità di una policy americana volutamente stabile. In risposta alle richieste russe di garanzie di sicurezza, i negoziatori americani hanno proposto in particolare un’agenda sulla non proliferazione. Parallelamente, lo spostamento progressivo del baricentro strategico verso il Pacifico non ha comportato cambiamenti significativi delle politiche americane in Ucraina, come provano i dati degli aiuti militari forniti da Washington a Kiev nel corso degli anni. Dal 2014 gli Stati Uniti hanno fornito 2 miliardi in materiale bellico (per lo più sistemi radar e antiartiglieria, insieme ai famosi missili anticarro Javelin) capaci di mettere in difficoltà le formazioni corazzate russe. La media di 250 milioni annui è rimasta quasi invariata, fatta eccezione per la minaccia di Trump di bloccare 391 milioni in aiuti se il presidente Zelensky non avesse fornito prove per incriminare il figlio dell’allora candidato Biden.

È su tale sfondo che è avvenuto il primo ciclo di incontri fra funzionari americani e russi, incluso il summit tra Biden e Putin a Ginevra del giugno 2021. In quell’occasione, l’ammassamento di truppe era stato accolto con meno preoccupazione dai funzionari occidentali rispetto ad adesso. Al di là di indizi militari (come l’assenza di buona parte delle unità logistiche necessarie a un’invasione), la mossa era stata interpretata, in effetti, come un modo per forzare un incontro faccia a faccia fra i due capi di Stato, tagliando 

definitivamente fuori l’intermediario europeo. Paradossalmente, però, il sedersi al tavolo a giugno con Mosca ha contribuito ad accelerare la crisi. Con riguardo ai nuovi regimi di controllo degli armamenti discussi, il problema di fondo non sarebbe stato risolto, e sicuramente non in un incontro: il Cremlino non sembra interessato a congelare il conflitto, bensì a risolverlo a suo vantaggio.  Più che il contenuto, però, è il formato bilaterale Stati Uniti-Russia – frutto anche della scelta americana di non coinvolgere gli europei, per esempio nell’ambito di un formato Normandia (Francia-Germania-Russia-Ucraina) allargato - ad avere probabilmente convinto Mosca che fosse possibile alzare la posta in gioco. Alla Russia Washington ha in effetti dato ciò che chiedeva da tempo e che era stato impensabile durante l’era Trump, ovverosia un dialogo bilaterale con gli Stati Uniti sull’Ucraina che, di fatto, ne riconoscesse il ruolo centrale in Europa e di grande potenza. È nell’ambito di questo formato che la Russia ha pensato di potersi permettere di presentare in forma di ultimatum scritto la tradizionale richiesta di non espansione ad est della Nato. La Russia peraltro vede confermata la sua percezione dell’Europa orientale come parte di una più vasta sfera d’influenza americana, contendibile a Washington finché Mosca avrà il vantaggio militare locale.

Gli obiettivi di Mosca e i rischi di un conflitto

Resta impossibile dire con certezza quale siano le vere intenzioni di Mosca, e se il Cremlino abbia o meno una strategia predeterminata. È difficile pensare che lo scopo primario dell’ammassamento di truppe russe al confine sia stato quello di invadere l’Ucraina. In primis, non c’è un territorio preciso a cui la Russia potrebbe guardare - contrariamente alla penisola di Crimea nel 2014 - né forze in Ucraina che rivendicano, come era successo nel Donbass, l’indipendenza territoriale, che Mosca potrebbe utilizzare come occasione per penetrare il territorio ucraino in nome della difesa di comunità russofone.

Per quanto poi in generale la prospettiva costi/benefici raramente aiuti a capire le mosse russe, invadere l’Ucraina, entrare a Kiev, avrebbe davvero un costo enorme, senza che sia chiaro cosa Mosca penserebbe di ottenere in cambio. Persino la parte più conservatrice e influente dell’establishment russo (tra questi, Sergej Karaganov in un editoriale di pochi giorni fa) si oppone fermamente a questo scenario, visto come assolutamente catastrofico. 

È più probabile invece che quello che Mosca stia provando a fare sia creare un deterrente al riarmo ucraino e imporre una propria agenda, ritrovandosi in particolare a negoziare con gli Stati Uniti il destino dell’Ucraina – e bypassando, come sempre, l’Europa - secondo la sua propria concezione di sicurezza europea che include una chiara, e riconosciuta, sfera di influenza russa. 

Il problema, però, è che il primo build-up di truppe a marzo non solo non ha portato ai risultati probabilmente perseguiti da Mosca, ma ha invece causato un rapido aumento delle tensioni e del sostegno militare da parte di Stati Uniti e Regno Unito all’Ucraina. Più in generale, di fronte al fatto che la Russia ha presentato un ultimatum scritto su questioni che non potranno mai essere accettate dagli occidentali, è difficile capire dove si trovi la linea rossa, e se Mosca sarebbe disposta a fare un passo indietro anche se, come sarà, le sue richieste non dovessero essere accontentate. Non è nemmeno da escludere la possibilità che, arrivati a questo punto, la Russia decida di attaccare l’Ucraina prima e al fine di negoziare successivamente.

Quando si gioca con il fuoco, c’è infine il problema del caso: un qualsiasi incidente alla frontiera russo-ucraina (un aereo russo che sorvola l’Ucraina o un drone inviato dagli ucraini oltre confine per esempio) potrebbe diventare il casus belli di una guerra che in molti (anche se non tutti) non vogliono.

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