Il chirurgo che nel 2020 salvò la vita a Mattia Guarnieri: «Torno dopo un anno di Long Covid»

di Enrico Galletti

Il calvario di Massimo Maurizio Cannavò: «Non ero sicuro del respiro successivo»

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Sul comodino di Massimo Maurizio Cannavò, in camera da letto a Varese, c’è un cuore di carta fatto con un foglio ripiegato su se stesso. Sopra una scritta: «Ciao papi, mi manchi tanto ma so che lì stai dando molto aiuto ai pazienti. Un bacio, Carlo». Era la festa del papà, ma del 2020. Dalle ambulanze che fermavano di fronte al pronto soccorso di Cremona scendevano anche trenta persone all’ora. Era il pieno della prima ondata e in quell’ospedale c’era bisogno di medici. Cannavò, 55 anni, chirurgo, legge l’appello della Regione e non ci pensa troppo: si mette in macchina e parte. È lì che Carlo, suo figlio, gli infila quel biglietto nel taschino. Il suo primo giorno in pronto soccorso arriva Mattia, 17 anni, l’80% del parenchima polmonare compromesso e i posti in terapia intensiva finiti. «Chiamo la rianimazione, deglutisco e dico: “Procuriamo un respiratore, non c’è tempo”». Mattia è il ragazzo che prima di essere intubato (resterà in terapia intensiva due settimane) manda un WhatsApp alla madre: «Devo andare, ti voglio bene. Torno presto».

Il ricordo

Ora Cannavò riavvolge il nastro. Tre giorni fa, si è riallacciato il camice. Quarto piano dell’ospedale di Varese. Mancava da un anno. «Mi sono contagiato in corsia a fine 2020, cinque giorni prima che arrivassero i vaccini. Ricordo la febbre a 40 che non passa. Il 2 gennaio mi sveglio e mi manca il respiro, il 5 ci riprovo: fame d’aria. Mi rivedevo in tutti i pazienti che avevo curato. Per mesi non ho dormito: attaccato all’ossigeno, giorno e notte contavo i respiri». Ci è voluto un anno di Long Covid perché Cannavò riuscisse ad alzarsi dal letto. «A un certo punto è rimasta la paura. In ospedale non volevo tornare, temevo di non essere più capace. Ho frequentato uno psichiatra. Poi sono state le rassicurazioni della mia famiglia (Carlo, 13 anni, e la moglie Luisa) ad aiutarmi a tirare dritto». E una voce amica, quella di Mattia. «Mi chiamò: “Dottore, tu mi hai salvato la vita. Ora tocca a te”». Alla fine, il ritorno. «In sala operatoria non ci sono ancora entrato, quello arriverà col tempo. A chi non vuole vaccinarsi racconterei la mia storia, di quando, una volta ammalato, sono riuscito a interpretare quel silenzio spettrale che da medico sentivo nel pronto soccorso pieno: quando stai così male non sei sicuro di riuscire a fare il respiro successivo. Sei concentrato su quello: stai zitto e ascolti l’aria. Non smetto di pensarci». Anche il terzo giorno in ospedale dopo la rinascita finisce. «Chiudo l’armadietto e torno a casa. Giro la chiave nella serratura». Il turno è andato lungo. «È vero — penso — succedeva anche questo». Poi bacia moglie e figlio. È tardi, ma lo aspettano per cena.

20 gennaio 2022 (modifica il 21 gennaio 2022 | 08:31)