Dicevi? Dicevi? È, ne sono quasi certa, la domanda più posta del pianeta. Non ho dati sottomano, ma se l’osservazione empirica fa almeno un po’ statistica, allora ho ragione. Dicevi? Te lo chiedono tutti: i figli a cui dici «Ciao, dormito bene?» la mattina, la collega con cui vai a prendere il caffè alla macchinetta, pure tua madre quando la chiami per sapere come sta: scusa gioia, dicevi?

La prossimità affettiva non è né un’aggravante né un’attenuante: nessuno ascolta più nessuno. E non è per cattiveria: è che ci si è ristretta la soglia dell’attenzione.

Questa cosa di distrarsi, quando ero bambina, sembrava una malattia tipica dell’infanzia, tipo gli orecchioni. Potevi avercela oppure no, ma a un certo punto non ti poteva venire più. Fino a neanche tanto tempo fa gli adulti distratti non esistevano, e se esistevano fingevano disperatamente di non esserlo mai, annuendo a caso, facendo facce auspicabilmente appropriate al tono del discorso che in realtà non stavano ascoltando, infilando degli «eh già» e «veramente?» dall’effetto rassicurante. Poi, come molte altre cose, il deficit dell’attenzione ha scavallato l’età dell’innocenza ed è diventato una questione da grandi. È stato quando i grandi hanno (abbiamo) cominciato a giocare con il cellulare come fossero bambini e qualcosa nell’evoluzione della specie ha fatto crack, il rumore dell’attenzione quando va in pezzi.

I Dicevi? li sgami subito. Quando ci parli di persona cominciano a spostare lo sguardo sempre più di lato o a guardare oltre la tua spalla. Ti giri e non c’è nessuno, solo i fatti loro a cui stanno pensando, invisibili ai tuoi occhi. In Zoom li becchi perché contemplano spesso il pavimento (non è vero, tengono il telefono sulle ginocchia) oppure perché nel mezzo del meeting gli viene da ridere, chiaramente non per la presentazione PowerPoint che vi stanno infliggendo. Se li chiami e ti mettono in viva voce, 9 volte su 10 intanto sono su una chat di WhatsApp, sulle stories di Instagram, stanno vendendo i jeans su Vinted. I Dicevi? si distraggono anche da soli, non è una questione personale con te. Chiusi in una stanza per lavorare, fanno cinque cose contemporaneamente: quattro non servono, nessuna dura per più di due minuti. Si spacciano per multitasking, ma credo che la definizione psichiatrica non sia quella.

Il vero secolo breve non è il Novecento, ma questo in cui il tempo sembra diventato un bene superfluo: ne vogliamo tutti sempre di più, solo per farlo in micro pezzi da usare male.

C’è un unico evento che sfugge a questa epidemia, e sono le serie tv: anche i Dicevi? più impuniti davanti allo schermo si fermano per ore, immobili, attenti, il cellulare dimenticato da qualche parte, forse anche scarico. La mattina dopo ne chatteranno su quattro chat contemporaneamente, mentre faranno finta di ascoltarti. Gli amici non servono forse a questo?

N.B.

Durante la stesura di questo articolo ho mangiato una mela, bevuto un caffè, prenotato dei biglietti aerei, scritto due mail, organizzato una cena, fatto la spesa online e aperto Instagram 10 volte.

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Silvia Nucini
Silvia Nucini, milanese, ha lavorato per quasi 20 anni a Vanity Fair viaggiando per il mondo e raccontando storie e persone. Adesso continua a farlo, anche qui. Ha scritto un libro (È la vita che sceglie, Mondadori) e ne scriverà altri. Ha due figli meravigliosi e due sogni scabrosi: possedere una palma e un cane.