Bangaly: «Ho scoperto i miei diritti, da migrante e omosessuale»

AfricArcigay è il primo progetto in Italia, promosso dal comitato Arcigay Rainbow Vercelli Valsesia, che offre uno sportello di assistenza legale ai migranti Lgbt e promuove un percorso di formazione per operatori e ospiti dei centri di accoglienza, sui temi legati all’immigrazione, alla salute e ai diritti della comunità Lgbt. Bangaly ha trovato qui accoglienza, rispetto e amore
Bangaly «Ho scoperto i miei diritti da migrante e omosessuale»

«Stavo finendo la scuola superiore, vivevo di nascosto una relazione con un ragazzo, ma quando ci hanno beccati insieme sono stato costretto a scappare per salvarmi». A raccontare il suo approdo su un barcone a Pozzallo, divenuto il porto sicuro in cui sfuggire all’omofobia endemica nel suo Paese, è Bangaly, ventinovenne ivoriano, reputato un reietto dalla società africana e, soprattutto, dalla sua famiglia, solo perché omosessuale.

«Provengo da una famiglia musulmana», spiega, «per mio padre accettare un figlio gay sarebbe stato inammissibile. Non l’ho mai più visto né sentito; addirittura ha dato la colpa a mia madre, costringendola a lasciare il tetto coniugale e andarsene in Liberia».

Credendo di essere «sbagliato» e temendo di essere vittima di discriminazione, per circa due anni, seppur ben accolto in Italia, Bangaly ha vissuto chiuso in sé stesso, al centro di accoglienza non ha confidato a nessuno il suo orientamento sessuale. La svolta, inaspettatamente, è giunta a seguito dell’esito negativo dell’esame dinanzi alla Commissione territoriale per il riconoscimento della protezione internazionale: «Mi hanno indirizzato da un avvocato a Vercelli per fare il ricorso e ottenere lo status di rifugiato politico. Proprio lui, apprendendo la mia storia, mi ha consigliato di rivolgermi ad AfricArcigay, un’associazione molto attiva sul territorio, in difesa dei diritti dei migranti omosessuali».

Si tratta del primo progetto in Italia, promosso dal comitato Arcigay Rainbow Vercelli Valsesia, che non offre soltanto uno sportello di assistenza legale ai migranti Lgbt per l’ottenimento del permesso di soggiorno, ma promuove un percorso di formazione, a cura di volontari italiani e africani, indirizzato a operatori e ospiti dei centri di accoglienza, sui temi legati all’immigrazione, alla salute e ai diritti della comunità Lgbt nonché al linguaggio di riferimento.

«È una vera e propria occasione di doppia integrazione suggeritaci, nel 2016, da una coppia di nigeriani che, dopo esser stati aiutati da noi ad ottenere i documenti, ci ha detto “ora i nostri problemi, in quanto gay e africani, non sono mica finiti. Come pensate di aiutarci?”» racconta Giulia Bodo, vicepresidente dell’Arcigay di Vercelli nonché promotrice del progetto AfricArcigay, evidenziando come da una richiesta condivisa sono riusciti a creare uno spazio di socialità protetto, in cui gli africani omosessuali diventano protagonisti nel divulgare una cultura non discriminante, soprattutto tra compatrioti cresciuti secondo i principi dell’odio e della repressione, che consente di vivere liberamente la propria identità.

Ad oggi il progetto conta circa quaranta attivisti migranti, impegnati in attività di militanza, assistenza e formazione nei centri di accoglienza per trasformare il senso di vergogna e di isolamento in consapevolezza dei propri diritti e coscienza democratica.

Tra questi c’è, appunto, Bangaly che ha imparato a non sentirsi inferiore e a non temere più il giudizio: «Qui ho scoperto i miei diritti, ho trovato una famiglia di cui fidarmi, quasi subito ho capito di essere nel posto giusto. Tra l’altro, proprio nel gruppo di AfricArcigay, ho conosciuto Ousmane, il mio attuale fidanzato».

Galeotto fu l’impatto con la lingua, come sottolinea Giulia Bodo, «quando Bangaly è arrivato, era così intimorito che non parlava con nessuno, per giunta diceva poche parole in italiano. Si è ritrovato francofono tra tanti volontari, prevalentemente nigeriani, che parlano inglese. Ma ad aiutarlo, dal primo giorno, è stato Ousmane, nostro attivista della Guinea, anche lui francofono». «Ci siamo capiti subito, in tutti i sensi», dichiara Bangaly, felice di poter vivere, da circa due anni e mezzo, la sua relazione alla luce del sole, sostenuto e rispettato dalla comunità.

Un valore aggiunto, secondo Bodo, sin da piccola attiva in difesa delle minoranze, è esser riusciti a sviluppare un progetto di integrazione in un territorio come quello di Vercelli, a forte impronta leghista. «Non abbiamo il sostegno delle istituzioni, non riceviamo finanziamenti se non qualche donazione, tanto che la nostra sede è presso la mia abitazione, ma siamo fieri di essere una realtà riconosciuta in tutto il Piemonte, e non solo. Il nostro gruppo è in continua crescita, si rivela sempre più proficuo per attivare un percorso di accettazione di sé stessi e di autodeterminazione in migranti che si scambiano paure ed esperienze, si sostengono e incoraggiano a vicenda» prosegue la giovane laureata in scienze politiche e relazioni internazionali, arrivata nei centri d’accoglienza come insegnante d’italiano e poi, inaspettatamente, diventata promotrice di questo progetto, affiancata da tanti volontari infaticabili. Tra cui spicca il giovane ivoriano, integratosi a tal punto da diventare una delle figure di riferimento: partecipa attivamente alle attività di accoglienza e formazione, fa l’interprete per i nuovi arrivati e, di recente, è stato eletto membro del consiglio direttivo dell’Arcigay di Vercelli.

«Per noi è una gioia essere artefici del cambiamento per questi ragazzi con un passato di persecuzione, che, grazie a una rete di mutuo aiuto, riescono a riappropriarsi dei loro sogni e costruire il proprio futuro nella terra che li ha accolti» conclude la giovane attivista, portando l’esempio di Bangaly che, mentre attende lo status di rifugiato, purtroppo ancora non ottenuto a causa della lentezza burocratica, lavora come fattorino e frequenta una scuola serale. «Ho preso pure la patente», dice, «il mio sogno è fare l’autista di camion. E, chissà, magari andare a convivere con Ousmane. Di sicuro non mi faccio più intimorire da chi, ogni tanto, mi insulta. Anzi, combatto per tutti i fratelli e le sorelle che ancora non hanno trovato il coraggio di sentirsi liberi».\