Amina Al Zeer: la donna che insegna alle altre donne a volare

Un passato di abusi, poi il riscatto. Oggi, grazie a Progetto Aisha, Amina aiuta altre donne come lei (musulmane ma non solo) a rialzarsi dopo le brutture della vita. E a camminare a testa alta, anche con il velo
Amina Al Zeer la donna che insegna alle altre donne a volare

Questo articolo è pubblicato sul numero 42 di Vanity Fair in edicola fino al 19 ottobre 2021

«Sono qui perché non voglio più vivere». Afnan, 30enne marocchina residente a Milano, dopo anni di abusi da parte del marito, si è presentata così, arresa e spaventata, all’ingresso di Progetto Aisha, una onlus che accoglie donne maltrattate e cerca di reinserirle nella società. Ad aprirle le porte, del centro e della speranza, la co-fondatrice e vice presidente Natascia Al Zeer (si legge Elzir), che tutti però conoscono come Amina («Non so perché ma, a otto anni, i miei genitori hanno cominciato a chiamarmi in questo modo e il nome mi è rimasto appiccicato addosso. Nemmeno mio marito si rivolge a me come Natascia», racconta). 45 anni, modenese di papà palestinese, Amina è operatrice sociale, attivista, moglie e mamma di sette figli, di cui l’ultimo, Gibril, di appena due mesi, passa pacificamente dalla sua spalla al suo seno per tutta la durata dell’intervista.

Dopo essersi scusata per la mise sportiva (una tuta e una T-shirt) e per un disordine casalingo che fatichiamo a percepire, Amina spiega che, in via del tutto eccezionale, ci incontra senza velo: lei è musulmana ma, tra donne e all’interno delle mura domestiche, è concesso mostrarsi a capo scoperto. Seconda eccezione della giornata, non dovrà interrompere la chiacchierata per pregare: oggi ha il ciclo ed è pertanto dispensata dalle cinque sessioni quotidiane di orazioni ad Allah. Anche se ci tiene a sottolineare: «Per me mica è un peso, eh. Anzi. Prima mi vergognavo, sa com’è: in Italia la pratica islamica non sempre è vista di buon occhio. Ora però ho imparato a fregarmene dei pregiudizi. Quando arriva l’ora giusta, interrompo qualsiasi cosa stia facendo, anche una riunione di lavoro, mi inginocchio, e mi rivolgo al Signore. È una sorta di meditazione, mi fa sentire bene. E non puoi aiutare il prossimo se non stai bene tu per prima».

Sposata con Abdesslam Nia, professione autotrasportatore, e madre di sette figli, di cui l’ultimo, Gibril, di appena due mesi, Amina concilia famiglia, lavoro e fede (prega cinque volte al giorno), dormendo pochissimo e condividendo la cura della casa al 50 per cento con il marito.

Con Progetto Aisha aiuta principalmente altre musulmane.
«Le porte sono aperte a qualsiasi confessione, però, sì, la maggior parte delle donne con cui interagiamo sono islamiche. Si ritrovano da sole in una società spesso ostile, che sente tanto ma ascolta poco. Ecco, noi cerchiamo prima di tutto di ascoltare».

E poi?
«Se hanno subito abusi, come Afnan, la ragazza che non voleva più vivere, ci attiviamo perché si allontanino dal marito o comunque dalla fonte del male. Costruiamo attorno a loro una rete fatta di avvocati e terapeuti, educatori, guide spirituali e medici. Poi le aiutiamo a emanciparsi, psicologicamente ed economicamente».

Cioè, trovate loro un impiego?
«Ci proviamo. Non è sempre facile, soprattutto quando si tratta, appunto, di donne islamiche. Già le donne in Italia partono svantaggiate sul mercato del lavoro, se poi portano il velo ancora di più. Ci sono imprese di pulizie, per esempio, che proprio non ti assumono se indossi il chador. Alcune, pur di guadagnare qualcosa, sono disposte a toglierlo. Anche questa, però, è una forma di violenza».

A casa di Amina, con il marito Abdesslam Nia e le figlie Fatima e Shirin mentre si preparano a festeggiare il compleanno di quest'ultima.

Lei se lo toglierebbe?
«Credo di no. Ma io sono fortunata: lavoro in un ambito in cui la diversità è benaccetta. Di più, è ricchezza. Detto questo, a volte mi basta un giro sui mezzi pubblici o un cappuccino al tavolino del bar per farmi un bagno di realtà».

Cioè?
«“Talebana”, “traditrice di Cristo”, “terrorista” sono alcune delle espressioni che mi sento ripetere più spesso».

Come reagisce?
«Sono quasi sempre anziani, molto ignoranti e molto arrabbiati: non rispondo, non ne vale la pena. Preferisco battermi contro l’islamofobia attraverso Progetto Aisha. “Islamofobia”… neanche mi piace questa parola».

Perché?
«Perché sembra giustificare insulti e violenze con la paura, quando spesso invece si tratta di odio».

Di solito, le due cose vanno a braccetto.
«Il vero problema è che la nostra religione è ancora vittima di troppi pregiudizi».

Oltre al cliché secondo cui sareste tutti estremisti, quale per esempio?
«Che le donne musulmane sono sempre sottomesse».

In fondo in fondo, non è così?
«Assolutamente no. La sottomissione della donna, che certamente è presente in molti dei Paesi di confessione islamica, fa parte di un retaggio culturale, non religioso. Le donne in Pakistan sono trattate diversamente che in Afghanistan, nel Maghreb o nell’Africa Sub-sahariana. Ci sono codici comportamentali incisi nella storia di un popolo, a prescindere dalla fede. La riprova? L’Italia è un Paese cattolico e, pure qui, le donne non se la passano molto bene».

Amina durante una visita a Marì, una delle donne aiutate da Progetto Aisha.

Meglio che nei luoghi che ha menzionato lei però. O no?
«Dipende. L’obbligo di incarnare un determinato canone estetico per essere considerate, il dover lavorare a tutti i costi per adeguarsi a un modello occidentale di successo: non sono anche queste forme di schiavitù? Senza contare che, in molte famiglie musulmane, sono le donne che comandano».

Magari all’interno delle mura domestiche, come le nostre nonne cent’anni fa.
«Resta il fatto che, persino nella “Milano capitale del progresso” ci si sente dire frasi come: “Occupati dei tuoi figli che è meglio”».

Parla come una che c’è passata.
«È capitato, sì, una volta che ho osato esprimere un’opinione discordante da quella del mio ex capo. Mi sono sentita annichilita».

Tra lei e suo marito che rapporto c’è?
«Di totale parità: la sera, chi prima arriva cucina, chi ha più forze pulisce. Non ci sono ruoli prestabiliti. Lo stesso insegno ai miei bambini. Ora solo i tre più piccoli vivono con noi e la regola è: uno apparecchia, l’altro sparecchia, a prescindere che siano maschio o femmina».

Sono tutti e sette figli dello stesso uomo?
«No, come le donne che aiuto, ho una lunga storia alle spalle. Non so se dovrei parlarne, sono divorziata».

In passato ha subito anche lei?
«Sì. Per questo so ascoltare senza giudicare, anche chi torna dal marito violento, anche chi non trova il coraggio per denunciare. Io capisco tutte perché so come ci si sente a essere schiacciate. Una volta un amico psichiatra mi ha detto: “Amina, smettila di strisciare, impara a volare”. Quel giorno è nata una nuova me: era il 2010, lo stesso anno, sarà una coincidenza?, ho sposato il mio attuale marito. Di lì a poco ho lasciato il vecchio lavoro, ho cominciato ad appassionarmi alla naturopatia e ora sto prendendo un diploma. Qualche tempo dopo, nel 2016, ho fondato Progetto Aisha».

Ha smesso di strisciare e ora insegna alle altre donne a fare altrettanto.
«Sì perché, vede, troppe di noi ancora strisciano. Strisciano le donne, tante ahimè, che, ancora oggi a Milano, subiscono la mutilazione genitale femminile e se ne stanno zitte. Strisciava Sofia che prendeva botte dal compagno e, a un certo punto, persino dal figlio maggiore, emulo del padre, tanto da arrivare a dire: “Mi sembra di aver partorito mio marito”. Strisciava Afnan, che ha trovato il coraggio di denunciare gli abusi sessuali subiti solo quando ha capito che pure i suoi bambini erano in pericolo».

A proposito, che ne è stato di lei, la ragazza che non voleva più vivere?
«L’ho conosciuta che era totalmente succube: non aveva mai lavorato, non aveva un conto corrente, non sapeva neanche utilizzare la carta di credito. Oggi è una donna indipendente che vive da sola, ha trovato impiego presso un Caf e mantiene i suoi figli. Per tanti anni ha strisciato, poi ha imparato a volare».

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