Fabrizio Acanfora: «I lavoratori autistici sono differenti, non difettosi»

Anche per quanto riguarda l’autismo, sui luoghi di lavoro c’è molto da fare per arrivare a una vera convivenza delle differenze
Fabrizio Acanfora
Fabrizio Acanfora

In Italia del rapporto fra autismo e mondo del lavoro non si parla granché. Eppure le persone nello spettro autistico sono circa 1 su 77; alcune di loro sono occupate, ma la maggioranza non riesce a ottenere un impiego. Un fenomeno che non riguarda solo il nostro Paese: negli USA l’85% delle persone autistiche è disoccupato, nel Regno Unito circa il 70%. Questi numeri restituiscono il ritratto di una situazione che richiede interventi urgenti. 

Ma anche nel momento in cui una persona autistica trova un impiego, con quali ostacoli deve confrontarsi? Molti, innanzitutto perché - questa è la consapevolezza che dovremmo maturare tutti - incontrano «barriere che nascono dall’interazione con una società strutturata da e per persone neurotipiche (cioè non autistiche). Partendo da qui è possibile provare a lavorare su un ambiente di lavoro che tenga conto sia delle difficoltà quanto delle potenzialità di ciascuna persona a prescindere dal proprio funzionamento neurologico», ci spiega Fabrizio Acanfora, che di autismo si occupa per lavoro, oltre a viverlo in prima persona; divulgatore (online e grazie a due libri, «Eccentrico, autismo e Asperger in un saggio autobiografico» e «In Altre Parole, dizionario minimo di diversità»), è responsabile delle relazioni esterne per Specialisterne Italy, organizzazione che si occupa di inserimento lavorativo delle persone autistiche. 

Acanfora, partiamo dalle basi: cosa significa in breve essere autistico?
«Significa avere un funzionamento neurologico che, in alcune aree, è differente dalla media. E questo fa sì che, in misura differente a seconda delle caratteristiche di ciascuno, si percepisca e si elabori il mondo circostante e quello interiore in modo diverso, come diversa è la maniera di interagire con esso. Questo può dare luogo a difficoltà più o meno grandi, ma è anche vero che molte di queste differenze in condizioni lavorative adeguate possono trasformarsi in talenti e in abilità».

Lei non parla mai di inclusione, ma di convivenza delle differenze; perché?
«L’inclusione è un gesto paternalistico di una parte della popolazione (la cosiddetta maggioranza) verso una minoranza. Racchiude quindi uno squilibrio di potere tra la maggioranza che include, che permette l’ingresso nella società alle minoranze, le quali subiscono passivamente questo processo. Inoltre, parlare di inclusione presuppone che ci sia a monte l’esclusione di determinate categorie. Trovo l’idea di convivenza delle differenze più bilanciata: siamo tutte e tutti sullo stesso piano, è un processo reciproco».

Sul luogo di lavoro quanto c’è bisogno di lavorare sulla convivenza delle differenze e, in particolare, su quali aspetti è prioritario intervenire?
«Bisogna lavorare sulla reciprocità e rendersi conto che il concetto di normalità è descrittivo, è statistico, e quindi pensare alla diversità non in termini comparativi (diverso da) ma come naturale variabilità delle caratteristiche umane. Se riusciremo a non giudicare le differenze ma a comprenderle, a esserne incuriositi e a discutere in modo rispettoso e franco di certi argomenti, anche il vantaggio sarà reciproco. Un ambiente lavorativo plurale è competitivo, innovativo e generatore di idee». 

Una persona autistica quali difficoltà incontra sul luogo di lavoro che i colleghi magari neanche immaginano? 
«Si tratta di difficoltà legate principalmente alla sfera sensoriale e a quella sociale (ma non solo). Da un punto di vista sensoriale possono causare problemi gli ambienti rumorosi e molto illuminati, come gli open space o i luoghi di passaggio, ma anche i profumi (pensiamo a quelli ambientali) possono causare un sovraccarico sensoriale che potrebbe risultare in un momento di crisi. Socialmente, le richieste e le pressioni per uniformarsi ai canoni della società neurotipica, anche quando in buona fede, possono anch’esse portare a sovraccarico emotivo o a burnout».

Cosa suggerirebbe a un lavoratore/trice che ha un collega autistico?
«Di partire dalla reciprocità. Non pensare che la persona autistica sia difettosa, ma differente. Guardare alle caratteristiche individuali come semplici differenze ci permette di trovare possibilità dove gli altri vedono limiti. A chi lavora con una persona autistica suggerisco di ascoltare cosa ha da dire. Troppo spesso l’inclusione lavorativa è disegnata e portata avanti da chi non vive l’autismo in prima persona. Diamo alle persone autistiche la possibilità di autorappresentarsi, di partecipare attivamente alla loro stessa inclusione».

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