Mille di questi dubbi

Ansia da controllo, cambiamenti e retromarce, un pizzico di narcisismo, ed ecco Louis Garrel, presto al cinema con tre film (senza dimenticare il suo lato snob, ci dice en passant la moglie...)
Mille di questi dubbi

Questo articolo è pubblicato sul numero 39 di Vanity Fair in edicola fino al 28 settembre 2021

Per Louis Garrel, l’anonimato è il desiderio nascosto di una vita. «Non ho mai saputo dire se il cinema sia stata davvero una scelta mia», racconta l’attore e regista, 38 anni, che da semplice uomo preferirebbe scomparire. Il clan a cui appartiene glielo ha a lungo permesso. Perché i Garrel sono una tribù di cineasti molto impegnati che ricorda le famiglie dei circhi, in cui ci si passa il testimone di generazione in generazione. A cinque anni, Louis era già sul set con il padre Philippe, luminoso astro della Nouvelle Vague, in Les Baisers de Secours.

Nello stesso film recitavano anche il nonno Maurice, la madre Brigitte e l’ex moglie del padre (la cantante Nico). Garrel continua a esercitare un fascino misterioso, basato su un’insicurezza che non perde la cifra del narcisismo. Vuole parlare in italiano e si scusa per non riuscire a trovare le parole adatte, parole che gli servono a dubitare di tutto. Della sua intelligenza, della vita di coppia, delle sue capacità. L’uomo che è stato il conturbante Théo di The Dreamers, il dandy di Saint Laurent, il pittore meditabondo di Un Été Brûlant, lo vedremo prossimamente in tre film: The Crusade, terza prova da regista, vede coinvolti lui e la moglie Laetitia Casta con i rispettivi figli che, da degni esponenti della “generazione Greta”, spingono gli adulti a battersi per un futuro più equo e più green. Nel dramma in costume The **Story of my Wife, di Ildikó Enyedi, invece, Louis sarà l’amico dandy di Léa Seydoux in una Parigi d’inizio Novecento.

Infine, in Our Men di Rachel Lang, ambientato ai giorni nostri in una base militare in Corsica, diventa un tenente della Legione Straniera che cerca di combattere il sistema dall’interno: «Non ho mai fatto niente di simile in vita mia e non so che cosa significhi vivere con la morte davanti a sé, come nel caso dei militari. Non so nemmeno fare a pugni e non ho mai fatto il servizio militare».

Però la regista Rachel Lang ha scelto proprio lei.«La prima domanda che le ho fatto è stata: “Ma perché vuoi fare un film sull’esercito?”. Ho scoperto che a 19 anni è stata militare e ha avuto un’esperienza molto personale al riguardo. Sa che cosa significa essere un soldato e soprattutto conosce le relazioni che i militari hanno con le fidanzate e mogli che restano a casa. Mi ero immaginato un lavoro più documentaristico, poi quando mi ha parlato della storia di queste due coppie ho capito che era un progetto più interessante».

Lei non ha fatto il servizio militare.«Contemplare l’eventualità di ammazzare qualcuno mi fa una paura tremenda, che non voglio provare».

La morte le fa paura?«C’è un filosofo, Pascal, che dice che il solo parlarne è già un’angoscia. Magari se sei buddista da quarant’anni non hai paura della morte...».

Si prepara in qualche modo, medita sull’impermanenza delle cose?«No, non conosco e non mi dedico a pratiche del genere. Però, per tornare al film, per essere credibile come uomo che si arruola nell’esercito ho frequantato per quattro mesi una palestra cinque volte alla settimana».

L’esercizio fisico ha cambiato la percezione di se stesso?«La percezione di me non è cambiata, il resto sì. Ho bisogno di allontanarmi da me stesso per fare bene il mio lavoro, e ogni mezzo è buono».

Essere ritratto dall’occhio di un fotografo le piace?«Mi ha sempre infastidito, la messa in scena non fa per me. Il mio è un lavoro molto narcisistico, meglio stabilire un limite».

Mi dica un suo difetto.«Parlo male l’italiano, soprattutto di mattina, dopo essere stato a una festa la notte prima».

Laetitia dice che quando lei si prepara a girare un film diventa matto e dice cose assurde: essere nato e cresciuto nell’ambiente del cinema non la rassicura?«Girare un film mi fa venire l’ansia di non potere avere il controllo su tutto. Prima delle riprese, parti con un’idea; poi la realtà ti mette davanti a cose da sacrificare. Il sogno con cui parti va spesso ridimensionato o cambiato».

L’esperienza l’ha migliorata?«Ho dovuto comprendere che le responsabilità, in un lavoro di gruppo, vanno divise e che ognuno deve portarne un pezzettino sulle proprie spalle. Controllare tutto peggiora il risultato, diciamo che in questo senso sì, sono migliorato».

Parlando del suo nuovo film, The Crusade: com’è andata con sua moglie?«Non ne ho idea, ci sono così tante cose di noi che non conosciamo davvero... Per questo poi facciamo i film, per comprendere».

Appunto, com’è andata sul set?«Al lavoro siamo completamente diversi rispetto alla nostra dimensione privata. Il set cambia tutto, Laetitia si preoccupa di non essere all’altezza delle mie aspettative, nel frattempo io raggiungo il culmine della mia ansia (ride, ndr)».

Sua moglie mi ha detto che avrebbe voluto averla come attore nel suo primo film da regista, ma lei ha gentilmente declinato l’invito.«Davvero?».

E quando le ho chiesto quale fosse il motivo del suo rifiuto, non ha esitato un attimo: «Louis è veramente snob!».(Ride, ndr) «Non è vero, non sono snob».

È contento di come è venuto questo film, la vostra «favola verde»?«Sì, perché il tema era molto importante, riguarda un cambio di direzione necessario per salvare il pianeta. Volevo alleggerirlo con i toni della commedia e quando alla serata di gala ho sentito che in sala ridevano tutti, ero molto contento. Abbiamo bisogno di leggerezza».

Soffre d’insonnia?«Spesso non riesco a dormire, ma mi piacciono quei momenti notturni, quel tempo in cui non si fa nulla, mentre durante il giorno ci viene sempre chiesto di fare qualcosa. Io fra l’altro procrastino molto, rimando tutto a più tardi, e mi sento in colpa per questo».

Che cosa ha detestato di più del suo mondo, fino a ora?«L’essere usato per vendere, non importa quali prodotti, è stato il motivo per cui a un certo punto ho smesso di lavorare. Quando sono tornato al cinema, ho capito molte cose. Il mio è un lavoro utile, aiuta a comprendere tanti aspetti della vita e rende il mondo più bello».

Aveva anche smesso di rilasciare interviste.«Ero confuso, avevo perso il filo di quello che stavo facendo. A volte ci spaventiamo quando ci vediamo dipendenti da Internet, dai tweet, da una sigaretta prima ancora del caffè. E ogni tipo di crisi porta ansia, l’ansia di essere cacciati, di essere fuori dai giochi. Con il conseguente bisogno di dimostrare che si sa quello che si fa».

Al momento è sul set dei Tre moschettieri, di Martin Bourboulon, nei panni di Luigi XIII. Che visione ha di un re?«Il re è colui che dopo la cena non lava i piatti».

Tutto qui?«Non occuparsi delle stoviglie non è un piccolo dettaglio, dal mio punto di vista».

Sì, ma che animo ha un re?«Il mio governa un Paese senza essere stato eletto, deve far credere a tutti di avere potere ma nel suo intimo vive un complesso di legittimità. Deve fare più fatica degli altri».

Sta girando anche L’Envol, con un autore di talento come Pietro Marcello.«È una favola piena di sogni, in cui sono un ragazzo che incontra una ragazzina. Li vediamo crescere e poi perdersi di vista, per poi incontrarsi di nuovo più avanti. Pietro lavora come un pittore, cambia tutto in continuazione. Ho deciso semplicemente di seguirlo, rinunciando a capire tutto».

Ma alla fine quale ruolo ha, davvero, un attore?«Quello di chi si sacrifica per gli altri in una specie di catarsi. Recitare è contattare qualcosa che abbiamo dentro per farla vivere in chi ci sta guardando».

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