Gazidis: «Dirigenti anziani, maschi e bianchi. Così il calcio non guarda avanti»

di Arianna Ravelli

Il manager scelto per rilanciare il Milan: «Servono un ricambio generazionale e contaminazioni con altri mercati per intercettare i giovani dove stanno (non dove crediamo dovrebbero stare)»

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Un marziano in serie A. È atterrato a Milanello nel dicembre del 2018 e avrebbe tutto per essere l’uomo che i tifosi prendono in antipatia: il manager scelto da un fondo di investimento per rimettere in sesto i conti, che si trova ad affrontare subito un anno di sospensione dalle Coppe, e poi la fuga a parametro zero di Gigio Donnarumma, il portiere eroe della Nazionale a cui ha deciso di non alzare lo stipendio. E però le cose a guardarle da vicino sono sempre più complicate. E più interessanti. E non solo perché il Milan è arrivato secondo la scorsa stagione e ha una situazione finanziaria più solida di molti club di A («siamo tra i pochi che hanno potuto investire in estate»). Ma perché quest’uomo figlio di due sudafricani attivisti contro l’apartheid ha in testa un modello nuovo, convinto com’è che «il calcio è un posto conservatore: la maggior parte dei dirigenti sono vecchi uomini bianchi troppo retrogradi per gestire il cambiamento». Un po’ più di un uomo dei conti, allora. Poi succede l’inaspettato: un mese fa, durante un controllo di routine, a Ivan Gazidis trovano un carcinoma alla gola, una forma di tumore curabile che lo ha portato a New York per sottoporsi a terapie specializzate. E Gazidis scopre di essere più amato di quanto si aspettasse.

Gazidis, come sta?
«Mi sento bene: sono molto impegnato, riesco a coniugare il lavoro e le terapie. Sembra che stiano avendo effetti positivi, mi rendono fiducioso per un pieno recupero, spero di tornare il prima possibile».

Riesce a seguire il Milan da lontano, dunque.
«Sì, certo. Ho visto la bella partita con il Cagliari e rivedere San Siro nuovamente vivo è stato emozionante, mi sentivo anch’io tra la Curva».

Ha sentito l’affetto dei tifosi?
«Sono rimasto senza parole per i messaggi che mi sono arrivati dalla grande famiglia Milan. Tutto questo mi sta dando un’energia incredibile. Ora capisco cosa provano i giocatori quando sentono la spinta dei tifosi allo stadio».

Quest’estate girava sui social un suo spettacolare gol di esterno segnato a Milanello su assist di Ibra. Una scoperta: lei giocava?
«Volevo diventare professionista, a 14-15 anni giocavo in seconda divisione. Ero un difensore veloce, poi sono diventato centrocampista e infine attaccante, ho capito che c’era più gloria davanti! Una volta ho giocato persino contro l’Arsenal. Ma se sei l’ad del Milan ti fanno tutti i complimenti, mentre quella volta si lamentavano dei miei tiri sghembi».

La sua Inghilterra ha perso contro l’Italia la finale degli Europei…
«Mio figlio c’è rimasto malissimo! Però è stato bello che Mancini abbia abbattuto tutti gli stereotipi sul calcio italiano».

Quell’Inghilterra è composta da molti giocatori lanciati dal programma giovani a cui anche lei ha lavorato all’Arsenal. I giovani sono anche l’ossatura del Milan. Ci spiega il suo progetto?
«La mia esperienza inizia negli Usa, là il successo della Mls dipende proprio dal formare giovani calciatori americani. In Premier abbiamo rinnovato completamente il percorso di sviluppo dei calciatori inglesi, ai club venivano dati incentivi per sviluppare le Academy ma dovevi soddisfare standard molto elevati. All’Arsenal è stato investito tanto denaro in un programma dai 9 ai 16 anni: abbiamo scelto uno staff totalmente internazionale. I giocatori che all’epoca avevano 12 anni, ora sono i nazionali Saka, Sancho... La filosofia era quella non di proteggerli dalla competizione, al contrario di esporli: quindi non l’obbligo di avere un certo numero di giocatori inglesi in squadra, ma l’obbligo di rispettare certi standard, così i giocatori inglesi dovevano essere all’altezza».

L’Italia dovrebbe prendere spunto?
«Nessuno può pensare oggi di vincere solo con campioni già affermati. Credo che il calcio italiano sia un po’ conservatore, come quello inglese 10 anni fa, deve guardare non solo avanti ma anche fuori, ci sono idee interessanti in giro. Però qualcosa sta cambiando, la Nazionale lo dimostra».

Qual è la forza del Milan?
«Do molto credito alla leadership di Pioli, un uomo curioso, che segue come il calcio si evolve, ma anche alla fame dei giocatori. Il calcio è anche un gioco mentale. Ho letto un libro molto interessante, The captain class, parla del tiro alla fune: ci sono degli studi, quando una persona tira contro un’altra sviluppa una certa forza, quando ci sono otto persone da una parte e otto dall’altra scopriamo che il singolo ce ne mette di meno. Perché in un angolo del cervello pensa che qualcun altro si farà carico della sua responsabilità. Ci sono giocatori la cui influenza va oltre la performance in campo, si sviluppa nel 5% che danno in più a tutti gli altri. Ibra è così. Ma anche Kjaer è un leader e, con stili diversi, Kessie e Bennacer».

Però ne avete perso uno: Donnarumma. Sicuro di aver fatto bene?
«Non voglio parlare del caso specifico, ma posso dire quello che sta succedendo. Il calcio non ha più i proprietari benefattori. È un modello che è cambiato 30 anni fa, con l’arrivo del denaro dei diritti tv: tanti soldi, nessun controllo dei costi. Questo ha continuato a crescere fino a quando non erano più 10-20-30 milioni all’anno, ma 100: molti proprietari hanno dovuto tirarsi indietro, nel calcio sono entrati Stati interi. In questo contesto chi cerca di proteggere il club è visto come il diavolo, ma non è così».

Pensa a sé stesso, immagino.
«È facile apparire bene ma mettere la squadra a rischio. Poi tu magari te ne vai, e la squadra resta con i problemi. Chi dice dei no viene demonizzato e questo crea una grande pressione a continuare a spendere. Ma non si può spendere per sempre. Chi dice no è solo abbastanza coraggioso da mettere la squadra davanti a sé. Perché il sistema ha cominciato a rompersi. E poi è arrivato il Covid».

Che ha avuto un effetto devastante.
«Non l’abbiamo ancora visto del tutto. So che la gente sta tornando allo stadio e si può pensare che sia tutto passato, ma non è così. Noi al Milan non vogliamo dire no alle ambizioni, ma dare al club la forza per costruire un futuro indipendente di successo. La gente parla di 10 milioni come se non fosse denaro vero, ma alla fine bisogna pagare le fatture: io voglio che il Milan sia forte abbastanza per farlo. Altrimenti c’è sempre un sogno che ha bisogno di essere salvato, ma questo club non deve essere salvato, ma costruito. E se è costruito bene starà in piedi da solo e guarderà avanti. Ho detto dal primo giorno che sarebbe stato difficile, a volte servono decisioni impopolari. Ma i tifosi cominciano a capire il nostro modello: due anni e mezzo fa c’era tanto scetticismo, dentro e fuori la squadra, ora no, la gente ci sostiene».

Però dopo un secondo posto le aspettative cresceranno.
«A noi piacciono le alte aspettative! Puoi arrivare primo o quinto ma quello che conta è mostrare che si può avere fiducia nel club. Siamo stati fra i pochi al mondo nelle condizioni di poter investire quest’estate, il Milan sta crescendo dal punto di vista economico e la gente sta tornando ad essere orgogliosa di essere milanista. Quello che conta è costruire questo senso di appartenenza, altrimenti si tratta solo di stare a guardare dei milionari che prendono a calci un pallone».

A che punto è il nuovo stadio?
«Noi siamo pronti. Prima lo facciamo, prima Milano avrà non solo uno stadio a livello mondiale, ma due squadre a livello mondiale. Sarà importante anche per la città: la gente verrà a Milano e sarà uno dei posti che vorrà visitare, come il Duomo».

Se la crisi del calcio è reale, la Superlega non era la risposta giusta.
«No, non lo era, ma quando si è in difficoltà si può anche perdere lucidità. I problemi sono rimasti e vanno affrontati assieme, club, Uefa, Fifa, perché la crisi non è passata e non è tempo per nessuno di dichiarare vittoria. La questione della governance è fondamentale: bisogna ricordare che tutto si basa sui club».

Ma il Fairplay finanziario esiste ancora? Guardando al Psg sembrerebbe di no.
«Il Milan a ottobre dovrà rispondere a una serie di domande sulla sua salute finanziaria. Quindi sì, il FFP esiste ancora. Noi che volevamo un progetto di calcio sostenibile siamo stati puniti con un anno di sospensione dalle Coppe. Io lo accetto ma le regole devono essere uguali per tutti. Lo sono? Bisogna chiederlo all’Uefa, c’è in gioco la sua credibilità».

Il razzismo nel calcio c’è: il Milan ha stilato un Manifesto contro le discriminazioni, ma è sufficiente?
«A volte è facile deprimersi, però resto ottimista: il calcio è un fantastico esempio di inclusione che produce risultati e, al tempo stesso, amicizia. I ragazzi che seguono il calcio vedono un mussulmano per quello che riesce a fare come giocatore e come uomo. Kessie non è un uomo nero, è un eroe».

Le nuove generazioni si allontanano dal calcio o lo guardano in maniera diversa: non stanno più 90’ davanti alla tv. Vi state attrezzando per gestire questi cambiamenti?
«È una questione complessa: ad esempio, i giovani scelgono di seguire iniziative in grado di essere “connesse”. Ai miei tempi si poteva nutrire un interesse per il calcio e in parallelo uno per la musica e per la moda, adesso si vuole unire questi mondi. Nell’era di TikTok, la sfida è capire dove si trovano i futuri interessati: il Milan collabora con Roc Nation (l’agenzia di Jay-Z), cerca contaminazioni con altri mercati per poter intercettare i giovani là dove stanno, non dove crediamo dovrebbero stare. Funziona: siamo uno dei club che ha coinvolto il maggior numero di neo interessati. Ma alla fine, i fan hanno il bisogno di riconoscersi in una comunità: questo sarebbe piaciuto anche al nostro fondatore Herbert Kilpin, dobbiamo solo tradurlo in un linguaggio attuale. Ma lei pensa che nel calcio sia percepito questo bisogno? Io no. La maggior parte dei dirigenti sono vecchi uomini bianchi: è necessario un ricambio generazionale con voci pronte alla sperimentazione». Come quella di un marziano.

25 settembre 2021 (modifica il 26 settembre 2021 | 19:04)