Fast Animals and Slow Kids: «Per guardarsi indietro senza vergogna»

La band di Perugia, a dieci anni dal suo primo disco, torna dal 13 settembre con «È già domani», album complesso nel quale «Ci sono tante domande e nessuna risposta». Fra la speranza di un tour e un talk per ritrovare gli amici: «La vittoria più grande è avere ancora voglia di uscire a cena tra di noi»
Fast Animals and Slow Kids «Per guardarsi indietro senza vergogna»

«È già domani», strilla il disco. E, a leggerlo quel titolo, verrebbe da evocare un mondo migliore, nel quale il domani abbia tutto quel che il presente si è visto negato. Possibilità di condivisione, gioia, allegria, normalità. Un insieme di doti che, tuttavia, non trova nella musica una sua celebrazione. «Quel domani che ci si aspetterebbe migliorativo non è sempre così come lo si è immaginato», spiegano i Fast Animals and Slow Kids, alias Aimone Romizi, Alessandro Gercini, Jacopo Gigliotti e Alessio Mingoli, ragazzi di Perugia, amici prima, artisti poi. L’immagine dei quattro, il cui primo lavoro, Cavalli, risale al 2011, campeggia sulla cover dell’album, in uscita il 17 settembre. Hanno i musi lunghi, lo sguardo fisso su un punto lontano. «E basta con quest’ossessione di sorridere al futuro», canta la Stupida Canzone, il singolo che, venerdì, accompagnerà l’esordio di È già domani. Ma non c’è negatività nel brano. Solo, una visione della realtà che i fatti recenti hanno reso più nitida.

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È già domani arriva a due anni dal vostro ultimo disco, Animali Notturni. Cosa c’è dentro?«Noi siamo la band da cliché, con il taccuino in tasca. Prendiamo appunti sugli istanti della nostra vita, per metabolizzarli poi. Nell’album, c’è tutto quello che abbiamo vissuto negli ultimi ventiquattro mesi. C’è la pandemia, la vita che abbiamo vissuto, le tragedie umane che abbiamo visto consumarsi. C’è un tour che non è andato e c’è un senso di speranza, di qualcosa che ritorna».

Sembra, però, ci sia anche tanta critica sociale: rabbia, frustrazione.«Sicuramente, È già domani si concentra sul futuro e sul senso del tempo. Abbiamo cercato, però, di darne una lettura duplice. Viviamo un presente che è sempre più vicino al futuro: una dimensione temporale che una lastra sottile, fragile, separa dalla successiva. Viviamo alla luce di quel che saremo poi, fra due minuti, settimane o mesi. Viviamo nella speranza di poter essere versioni migliori di noi stessi».

Ed è un male?«No, ma questa continua proiezione del sé nel futuro altera la percezione del sé presente, e questo genera ansia. Viviamo uno stress eterno, uno stato di continua progettazione. Abbiamo l’angoscia di un futuro che ancora non è arrivato».

La consapevolezza di questo dualismo è figlia della pandemia o dei trent’anni?«Forse, di entrambe le cose. I trent’anni non li stiamo mettendo a fuoco, li stiamo lasciando andare. Quel che conta sono i passaggi mentali ed umani che stiamo facendo, sono le domande che ci si pone a prescindere dall’età».

Dunque, il «cosa» prima del «quando».«Sì. Non crediamo che sia necessario fare determinate cose perché si ha una determinata età. Nel nostro gruppo di amici, un gruppo di coetanei, non siamo focalizzati tutti sugli stessi obiettivi. Abbiamo percorsi diversi, e vanno tutti bene. Perché lasciarsi trasportare dal proprio flusso non significa perdere la capacità di riconoscere ed analizzare quel che la vita, nella sua complessità, offre».

Perciò, in Cosa ci direbbe, cantate «Se dovremo raccontare ai figli che sapore avranno questi anni, sarà il vento di quest’ignoranza a tramandare tutti i nostri sbagli»?«Nel disco, sono confluite alcune cose che fanno parte della nostra percezione odierna. Ci sono aspetti di questa società che non ci trovano in linea: l’ignoranza dilagante, capace di esplodere nella più cieca rabbia sociale, la progressiva disgregazione della collettività cui stiamo assistendo».

Come combattere tutto questo?«Questa volta, non abbiamo risposte. Questo album, quantomeno nella nostra percezione, si pone tante domande senza offrire alcuna soluzione. È una novità, per noi. Di solito, concepivamo le canzoni come percorsi chiusi nelle nostre teste. Oggi, invece, abbiamo bisogno di confronto».

E, infatti, l’uscita del disco sarà accompagnata da È già domani – Il talk, al Teatro della Pergola di Firenze alle 16 del 13 settembre.«L’idea è nata per caso. A trent’anni, ci siamo trovati a confrontarci con gli uomini che sono stati i nostri padri alla nostra età. Ne è uscito una conversazione profonda, la condivisione di un momento, e abbiamo pensato di riunire alcuni amici per chiedere loro di parlare con noi delle tematiche che abbiamo portato nel disco, un disco di dialogo».

Perché avete deciso di aprirvi, nel disco, a collaborazioni esterne, con Lodo Guenzi (Come un animale) e Willie Peyote (Cosa ci direbbe)?«La risposta l’abbiamo maturata solo adesso, auto-psicoanalizzandoci. Nell’ultimo periodo, c’è stata tanta distanza fra le persone e abbiamo cominciato a sentirci soli. Abbiamo avvertito il bisogno di avere intorno amici con i quali confrontarci. Lodo lo conosciamo dai tempi in cui davanti ai nostri palchi c’erano dieci persone. Siamo amici, amici veri. C’è una sintonia sincera fra noi».

Da un punto di vista musicale, È già domani è molto diverso dagli album passati. Scelta stilistica o casualità?«Processo fisiologico. Può essere difficile averne contezza, dall’esterno, ma noi suoniamo insieme da dieci anni: siamo gli stessi da sempre, da sempre viviamo nella stessa città. Parliamo tutti i giorni delle stesse tematiche, fino a farne un’ossessione. L’ascoltatore riesce a percepire quel che c’è negli album, ma quel che c’è tra gli album non lo sente, non lo vede. Alla fine, ci siamo dati una sola regola».

Quale?«La coerenza. Coerenza rispetto a quello che piace a noi, non rispetto a quel che dovremmo essere secondo uno spettatore esterno. È già molto difficile così: trovare una sintesi tra noi quattro. Dunque, la definizione del nostro suono vogliamo spetti a noi, ed è importante che sia onesto e puro così da poterlo riascoltare negli anni senza doversi mai vergognare di quel che si è fatto».

Onestà, coerenza e purezza sono parte di una strada difficile. Avete scelto di non sposare le mode, quindi il successo facile. Quanto ne avete sofferto?«Poco. Ogni singolo ci si aspetta vada meglio, ma non c’è nulla da rimpiangere. Le scelte che abbiamo fatto le abbiamo fatte insieme, e sono sempre frutto di una sintesi soddisfacente fra le nostre quattro teste. Stare bene insieme e continuare ad avere voglia di andare a cena in quattro, per i cazzi nostri, è la vittoria più grande. Non soffriamo per un singolo che sarebbe potuto andare meglio, anche perché la musica che facciamo è quella che vorremmo ascoltare».

Nessun rimpianto, dunque.«Ma no. Anche perché tutto questo, ad un certo punto, finirà. Come tutti i musicisti, ci troveremo un giorno a fare un altro lavoro. La musica è un mondo aleatorio: oggi ci sei, domani scompari. Quel che conta è potersi guardare indietro con soddisfazione, consapevoli di aver lasciato sassi, non briciole di pane».

Ad aprile, partirete con un nuovo tour. Quanta fisicità ci sarà?«Speriamo quella che c’era un tempo. la campagna vaccinale sta andando bene e gli esperti del settore parlano di un ritorno alla normalità. Abbiamo fiducia assoluta sul fatto che ad aprile di potrà fare un concerto in presenza, stando vicini, in piedi, sudati. insieme».