03 agosto 2021 10:06

È stato una boccata d’ossigeno il discorso che Virginia Magnaghi, Valeria Spacciante e Virginia Grossi hanno tenuto il 23 luglio alla cerimonia di consegna dei diplomi alla Scuola normale di Pisa. Con le loro parole, le tre neodiplomate hanno portato nel dibattito pubblico un tema spesso trascurato: lo stato attuale dell’università italiana. Martoriata da investimenti pubblici insufficienti e da tagli che hanno comportato un graduale ridimensionamento del sistema, l’università ha visto ridursi il numero degli immatricolati, in particolare nel sud; quello del corpo docente, sempre più precario; quello del numero dei corsi di laurea, sempre più spesso a numero chiuso; e quello del personale tecnico-amministrativo.

Negli ultimi vent’anni sono stati principalmente gli studenti a dare voce alle conseguenze di questo ridimensionamento, evidenziando come sia andato di pari passo a un generale aumento delle tasse universitarie, alla riduzione delle borse di studio e alla contrazione delle aspettative occupazionali, già ridotte prima della pandemia a causa di un’offerta esigua di lavoro qualificato e deterioratesi ulteriormente nell’ultimo anno. Ne scriveva nel 2016 Gianfranco Viesti in un importante rapporto intitolato Università in declino. Un rapporto sugli atenei italiani da nord a sud (Donzelli 2016), offrendo un ritratto inclemente dello stato dell’università in Italia. Inoltre, il rapporto Almalaurea del 2020 mostra come da anni il paese abbia due tristi primati: quello del numero di laureati più basso d’Europa, insieme a un brain drain tra i più elevati (i pochi laureati che ci sono se ne vanno e questa fuga è aumentata del 41,8 per cento negli ultimi otto anni a causa delle scarse prospettive occupazionali e dei bassi salari).

Non solo: se si considerano i diplomati che scelgono di continuare gli studi l’Italia è ultima in Europa, insieme alla Grecia. Ragazze e ragazzi non vanno all’università perché costa troppo e perché con o senza laurea non esiste in Italia un mercato occupazionale in grado di assorbirli.

È emozionante, in un contesto così difficile, ascoltare la precisione delle parole di Virginia Magnaghi, Valeria Spacciante e Virginia Grossi, non solo perché le tre neodiplomate sono riuscite a portare l’eloquenza delle loro voci in un contesto così difficile, ma perché hanno aperto un varco nel discorso pubblico, mostrando le implicazioni di queste politiche per gli studenti. L’hanno fatto, peraltro, da giovani donne, contrastando attivamente l’abitudine dell’università italiana a penalizzare le donne in modo sistematico in ogni fase della loro esperienza e carriera accademica, tema ben evidenziato nel loro discorso, e su cui c’è ancora molto lavoro da fare. Le loro parole sono diventate virali, attirando ringraziamenti e complimenti, oltre a qualche critica. Va detto, tuttavia, che le neodiplomate hanno posto temi urgenti e per lungo tempo assenti dal dibattito pubblico italiano, sui quali è necessario riflettere.

Disuguaglianze
Possiamo ripensare a What are universities for? (Penguin 2012) di Stephen Collini e al lavoro di Henry Giroux sulle trasformazioni dell’istruzione terziaria negli ultimi trent’anni per renderci conto di come la letteratura internazionale si sia soffermata lungamente sulle implicazioni sociali dell’università neoliberale. Magnaghi, Spacciante e Grossi hanno usato il termine “neoliberale” per descrivere l’università contemporanea, e per quanto questa parola risulti talvolta oscura, ha un significato ben preciso, che rimanda a quel processo di riduzione dell’intervento statale nella spesa pubblica che nelle università ha implicato non solo un processo di disinvestimento e tagli, ma che ne ha cambiato profondamente la struttura e le finalità.

In Italia, una delle conseguenze di questi tagli è stato il graduale aumento delle tasse universitarie e l’introduzione del numero programmato in sempre più corsi di laurea. Se prendessimo queste due conseguenze come esempi delle trasformazioni in corso, vedremmo chiaramente che si tratta di trasformazioni profonde, con origini nella sfera economica e conseguenze sociali e psicologiche. Come scrive il rapporto Almalaurea “l’Italia si colloca, insieme a Belgio, Francia, Spagna e Irlanda tra i paesi europei in cui è molto elevata la quota di studenti che pagano le tasse universitarie e contemporaneamente è molto ridotta la quota di chi riceve una borsa di studio”.

In questi paesi, la riduzione del numero di borse di studio condiziona l’accesso agli studi terziari e penalizza i gruppi sociali più fragili: ragazze e ragazzi privi di mezzi o svantaggiati non hanno le stesse possibilità dei loro coetanei più ricchi. Quando le neodiplomate criticano la logica della competizione e la “retorica dell’eccellenza”, descrivono proprio questo: il rischio che il disinvestimento nell’università pubblica non selezioni i “migliori”, o gli “eccellenti”, ma semplicemente i più ricchi, aumentando le diseguaglianze sociali invece che ridurle.

La cultura della perfezione
Tuttavia, Magnaghi, Spacciante e Grossi pongono l’accento anche su un altro tema – a sua volta presente nel dibattito internazionale e assente in Italia – e cioè quanto questa competizione abbia conseguenze negative sulla salute psicologica degli studenti. La letteratura straniera ha sottolineato varie volte come la “cultura della perfezione” evidenzi l’esistenza di una linea assai sottile tra la tendenza all’hyper achievement (la spinta continua a competere) e l’angoscia del fallimento.

Talvolta il semplice fatto di sbagliare un test di ammissione o un esame induce a concludere di essere un fallimento, invece di limitarsi a pensare di aver fallito un obiettivo, ha scritto Julie Scelfo sul New York Times. Secondo Scelfo, possiamo parlare di cultura della perfezione ogni volta che la percezione di dover eccellere nelle proprie attività si traduce nell’esperienza di stati d’animo di “scoraggiamento, alienazione, ansia o depressione”.

In questi casi la colpa si traduce nella sensazione di essere “in difetto (defective) o, per dirla in un altro modo, di non essere bravi abbastanza”. “Non si tratta di aver fatto una performance non buona”, continua Scelfo, “si tratta di essere dei buoni a nulla”.

È triste, in questo contesto, osservare che, in alcuni casi, le parole delle tre diplomate sono state accolte con critiche o con insofferenza. Per quanto dure, ci esortano a una riflessione collettiva sui prìncipi e sulle finalità dell’istruzione pubblica. Il marchese Nicolas de Condorcet scriveva nel suo fortunato Rapporto sull’istruzione pubblica del 1792 che l’educazione ha due finalità: ridurre il divario culturale e le disuguaglianze economiche della società. In una società disuguale come la nostra, è l’accesso al sapere l’unico strumento in grado di dare a tutti la possibilità di ridurre le disuguaglianze e di accedere a una vita dignitosa. Nelle riforme universitarie degli ultimi vent’anni l’importanza dell’istruzione nel contrasto alle disuguaglianze è stata menzionata di rado. Grazie a Virginia Magnaghi, Valeria Spacciante e Virginia Grossi per averci ricordato a cosa serve l’istruzione e in che direzione dovremmo lavorare per cambiarla.

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