Jacobs e Tamberi ori olimpici: quei 10 minuti che hanno cambiato la storia dello sport

di Gaia Piccardi, inviato a Tokyo

Una giornata d’oro e storica all’Olimpiade per l’Italia: Marcell vince i 100 metri, è il nuovo Bolt; Gianmarco vola nel salto in alto, primo insieme con Barshim

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Dentro la pancia di questo stadio vuoto si sente tutto. I singhiozzi di Gianmarco Tamberi detto Gimbo, a destra, il ragazzo di Civitanova Marche che ha appena vinto l’oro olimpico nell’alto e adesso, in mancanza della mamma, trova conforto nell’abbraccio con la bandiera. E i battiti del cuore di Marcell Jacobs, a sinistra, l’uomo di El Paso cresciuto a Desenzano del Garda che si sta accucciando sui blocchi della finale dello sprint.

In mezzo, tra i due compagni di Nazionale (Tamberi è il capitano di Jacobs), cento metri e una sintonia d’anime totale, l’alchimia che giustifica un’Olimpiade a due piazze che ha stupito il mondo e i suoi abitanti. Italians do it better, dice il solito collega spiritoso. Gli italiani lo fanno, e basta. Aspettano tutta la vita e poi si prendono la storia in una notte, al massimo con un intervallo di dieci minuti.

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Non era mai successo. Che un italiano campione olimpico nell’alto aspettasse al traguardo un italiano campione olimpico nello sprint per abbracciarlo, benvenuto a casa, solo io so cosa abbiamo passato per arrivare qui. Tamberi, 29 anni, si era rotto il tendine d’Achille nell’ultima gara prima dei Giochi di Rio 2016, per cinque anni ha mangiato, bevuto, pensato e respirato Olimpiade finché non ci si è ritrovato occhi negli occhi e, carico com’era di emozioni, l’ha sedotta.

Gimbo già saltava mentre Marcell correva la semifinale dei 100, ritoccava il record italiano per la seconda volta a Tokyo (9”84), si regalava la primizia di diventare il primo atleta azzurro nella finale olimpica dei 100, terzo crono in assoluto, meglio di lui solo il cinese Su e l’americano Baker.

Mentre Jacobs recupera facendosi massaggiare, Tamberi è in volo verso l’aria rarefatta, è entrato in gara a 2,19 e non sbaglia più fino a 2,37, significa sette salti perfetti, rincorsa-stacco-decollo: l’asticella non trema mai, nelle cellule di Gimbo non c’è memoria di dolore, solo voglia di salire più su. A 2,30 gli avversari cominciano a cadere come mosche, il coreano ridanciano Woo e l’australiano baffuto Starc, il russo Akimenko, l’americano Harrison che si lascia dietro una scia di dreadlocks. A quota 2,37 la selezione è fatta. Per le medaglie rimangono in tre: il fenomenale Barshim, papà sudanese e mamma del Qatar, che se non fosse nato a Doha sembrerebbe la scultura di una mostra di Giacometti, il bielorusso Nedasekau e il nostro Gimbo.

E lassù, dove si spingono solo le aquile, mentre Jacobs entra nella camera di chiamata della finale dei 100, sbagliano tutti. Una, due, tre volte. Nedasekau è bronzo perché si porta dietro il peccato originale di due errori pregressi, il giudice si avvicina a Tamberi e Barshim, che sono amici per la pelle ed entrambi tornano dal buio di infortuni gravi, e chiede: preferite continuare a saltare o volete due ori? Non c’è neanche bisogno di parlarsi: «Nessuno di noi due voleva togliere all’altro la gioia della vittoria» spiegherà l’azzurro.

Trionfo ex aequo, eguagliata la mitica Sara Simeoni oro a Mosca ‘80 (Olimpiade non pandemica ma boicottata, però questa è un’altra storia), il party a cielo aperto di Gimbo può cominciare. Spunta il gambaletto di gesso dell’incidente del 2016 (con il pennarello nero c’è scritto sopra: road to Tokyo 2020), ci sono lacrime e sorrisi e carezze con il papà-coach Marco, c’è spazio per una telefonata con la fidanzata Chiara («Amore, hai visto?») poi di colpo si fa buio. Luci spente per la presentazione della finale dei 100 metri.

In corsia tre, stretta tra il Sudafrica di Simbine e la Gran Bretagna di Hughes, ecco little Italy tra i giganti: Cina, Usa, Canada hanno avamposti in questo Risiko giocato a 36,734 km all’ora di velocità media, perché tutto il mondo ha una gran fretta di piazzare la bandierina sul tartan e eleggere l’erede del più grande in pensione, Usain Bolt. C’è chi perde tempo a rimpiangere il giamaicano, chi non si sente all’altezza, Su è prosciugato di energie, Hughes fa falsa partenza ed è squalificato, la Nigeria (Adegoke) non è terra di sprinter, qui non ha diritto di cittadinanza. Nell’attimo sospeso prima dello sparo, quando i centisti si fanno piccoli e curvi sui blocchi per poi crescere nell’arco di una decina di secondi, si sente il grido di Gimbo per Marcell: «Vaiiiiiiiiiiiii». E va, Jacobs, eccome se va. 0,161 il tempo di reazione (penultimo, il più veloce è Kerley), 6”12 per passare in testa alla gara, 43,1 km all’ora la velocità di punta dopo 75 metri. Ormai è imprendibile, i muscoli di Kerley piombano sul traguardo quattro centesimi dopo, il grande favorito De Grasse è solo bronzo.

Il Bolt de noantri è Marcell Jacobs, padre di tre figli e dieci tatuaggi, il bambino che in cortile a Desenzano correva facendo finta di essere al volante della motoretta che mamma Viviana gli aveva negato, e che — da allora — non si è più fermato. Vince l’oro olimpico nei 100 in 9”80, un crono enorme, record europeo e italiano abbassato per la terza volta in 24 ore, decimo all time. Surreale, se non fosse vero. Tagliato il traguardo, Jacobs trova ad aspettarlo il sorriso di Tamberi, sono passati dieci minuti dall’oro nell’alto e l’Italia raddoppia con il metallo più prezioso nella gara più nobile di Olimpia, quella di cui oggi parlano anche le tribù della Papuasia, quella che ti consegna dritto alla storia.

Stanno così, Gimbo e Marcell, con l’azzurro delle tute fuso in un groviglio di braccia, un tricolore per due, le teste vicine, i cuori all’unisono.

E per oggi, da Marte, è tutto. A voi Terra.

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2 agosto 2021 (modifica il 2 agosto 2021 | 03:40)