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Mps, allo Stato una quota di UniCredit in cambio della nuova dote

L’ipotesi è di una scissione di Mps in due parti, con il Tesoro socio al 4-5%

di Marco Ferrando e Gianni Trovati

Pnrr: da Banca Mps i poli AgevolaPiù dedicati

3' di lettura

Dal punto di vista del governo, come sanno bene due ex banchieri come Mario Draghi e Daniele Franco, chiudere una volta per tutte la partita Mps non ha prezzo. Ma un costo, il salvataggio dell’istituto più antico del mondo, ce l’ha da tempo. E più passano gli anni più cresce, in una spirale che ricorda per certi aspetti quella Alitalia ma con l’aggravante di un settore, quello del credito, che ha sempre in serbo qualche brutta sorpresa o qualche imprevisto.

Così si spiega il sollievo che trapelava da Via XX Settembre, nell’attesa di definire lo schema, il perimetro e il valore di un’operazione di cui per ora si sono gettate solo le basi ma che può segnare la tanto attesa (anche dall’Europa) discontinuità nella storia della banca e del suo azionista di controllo.

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40 giorni di trattativa

I conti, sia dal lato di UniCredit che del Tesoro, si faranno tra 40 giorni, alla fine della trattativa ufficialmente avviata giovedì sera. Ma la direzione è ormai chiara ed è stata fotografata ieri dal mercato: per Piazza Gae Aulenti c’è un guadagno assicurato (non a caso in Borsa ha messo a segno un balzo record), per il Monte uno possibile (anche se sarà determinante lo schema del’operazione), a mettere in sicurezza l’architettura del salvataggio ci penserà il Tesoro. Che già nel 2017, per approdare all’attuale assetto, aveva messo sul tavolo 5,4 miliardi, di cui 3,9 per la quota del 64,2% che ai prezzi di ieri di Borsa vale circa 700 milioni. Quattro anni dopo, per dare Mps in sposa a UniCredit, ecco una nuova dote miliardaria. Le Dta, i crediti d’imposta computabili a capitale, ammonteranno a oltre 2 miliardi, beneficio immediato per UniCredit che, fanno notare dal Tesoro, si accompagna a quello di lungo periodo per lo Stato, che non vedrà riconoscersi crediti fiscali ben superiori. Ci sono poi i 2 miliardi (di cui 1,5 ufficialmente a carico del Mef) di aumento di capitale, sancito dagli stress test di ieri, che l’azionista pubblico avrebbe comunque dovuto versare, anche - e soprattutto - in caso di prospettiva stand alone. Poi gli oneri per la gestione delle uscite volontarie, alcune migliaia, e infine le cause legali e gli Npl, pezzi del Monte che UniCredit ha già dichiarato di non volere e che dunque resteranno in capo agli attuali azionisti della banca, in primis al Mef.

Oneri tra i 5 e i 10 miliardi

La somma degli oneri per Via XX Settembre, si diceva, non si può ancora calcolare. Ma spazierà in una cifra che oscilla tra i 5 e i 10 miliardi di euro, compresi gli interventi del 2017, un maxi paracadute che al Tesoro rifiutano di considerare un “regalo” a UniCredit visto che buona parte delle spese andavano comunque coperte per mantenere in piedi la banca o gestire altri scenari considerati più crudeli.

Al Mef una quota di Unicredit

Oltre a ciò che Andrea Orcel si rifiuterà di rilevare, è probabile che Via XX Settembre si ritroverà con una quota di UniCredit. Un pacchetto oggetto di negoziazione con la banca, che prenderà forma nel caso in cui si opterà per lo schema ritenuto più agevole, ovvero la scissione non proporzionale di Mps in due diverse newco, una destinata a confluire in UniCredit e l’altra a restare autonoma, salvo poi destinare a terzi gli Npl (la via maestra porta ad Amco) e il contenzioso (maggior indiziato è Fintecna). Più fonti vicine al dossier facevano notare che al Tesoro potrebbe arrivare una quota vicina al 4-5%, in cambio del conferimento della propria quota nella Mps “buona”. Un pacchetto robusto ma ininfluente sugli equilibri dell’azionariato o sulla governance. E una specie di rimborso per gli oneri affrontati in questi anni nell’auspicio che - nel caso in cui la cura Orcel debba funzionare - possa anche rivalutarsi.

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