Il primo europeo a descrivere il kiwi fu il gesuita francese Pierre Nicolas Le Chéron d’Incarville, che nel 1740, a Macao, si imbattè nella pianta che un altro botanico francese, Jules Èmile Planchon, un secolo dopo, avrebbe battezzato con il nome di Actnidia chinensis. Il delizioso frutto, inizialmente soprannominato «ribes della Cina», giungerà sulle nostre tavole dopo un avventuroso viaggio, raccontato dalla biologa Katia Astafieff nel volume Le incredibili avventure delle piante viaggiatrici (Add Editore). Nel 1904 l’insegnante neozelandese Isabel Fraser, di ritorno dalla visita alla sorella Katie, missionaria della Chiesa di Scozia nella provincia cinese dello Hubei, portò con se alcuni semi di Actinidia. I neozelandesi cominciarono a coltivare con successo la nuova pianta, ribattezzata kiwi, visto che il frutto assomigliava vagamente all’uccello simbolo di quella terra.

Oggi la Cina è il primo produttore mondiale, ma al secondo posto c’è l’Italia, con una produzione annua che si aggira intorno alle 500mila tonnellate, in particolare nel Lazio (zona di Latina), Piemonte (Cuneo), Veneto (Verona) e nella piana di Gioia Tauro, in Calabria. Una coltura di grande successo, eppure assai fragile. Tra il 2007 ed il 2010 le coltivazioni sono state colpite dal “cancro batterico” provocato dallo Pseudomonas syringae patovar actinidiae (PSA), a cui ha fatto seguito un nuovo flagello, quello della sindrome denominata «moria del kiwi» (kiwifruit vine decline), che provoca asfissie dell’apparato radicale portando la pianta a collassare. I primi casi sono stati registrati nel 2015 nel vercellese, tra Borgo d’Ale e Alice Castello, successivamente è comparsa in provincia di Cuneo, a Saluzzo e Lagnasco. Nel giro di pochi anni interi actinidieti sono stati estirpati e dai 5.500 ettari di kiwi coltivati in Piemonte nel 2010 si è giunti ai 3180 ettari del settembre del 2020. Di questi si stima che circa un 50% sia ancora produttivo, mentre la rimanente parte è in via di disseccamento. La malattia ha colpito il 25% della superficie italiana coltivata a kiwi, una situazione  allarmante per le ricadute economiche ed occupazionali.

«Quanto sta accadendo al kiwi dimostra i pericoli che si corrono quando viene impiantata una nuova coltivazione – spiega Maria Lodovica Gullino, docente di patologia vegetale e direttore di Agroinnova, il Centro di Competenza per l’innovazione in campo agroambientale dell’Università di Torino, nonché autrice del volume Spore (Daniela Piazza Editore) - all’inizio degli anni Settanta quando molte aziende saluzzesi iniziarono a coltivare kiwi, mio padre preferì rimanere fedele al pesco e al melo, perché aveva dubbi sulla tenuta di quella nuova specie alla luce delle gelate primaverili. Aveva ragione. Oggi la batteriosi non si può considerare vinta ma è sotto controllo, sono state messe a punto anche strategie di prevenzione e si stanno diffondendo varietà tolleranti o resistenti attraverso un lavoro di miglioramento genetico. Poi è arrivata la moria, che noi definiamo una malattia «complessa», da studiare e da contrastare, dove entrano in gioco più fattori ambientali, agronomici, fisiologici e anche fitopatologici. Sono stati isolati degli omiceti, ma probabilmente sono quelli che noi chiamiamo ‘patogeni di debolezza’, che attaccano la pianta quando è già debilitata, più un effetto che non una causa della malattia. Non è possibile contrastare questa sindrome con interventi chimici, l’unica cosa da fare è l’espianto: nel 2019 si conta che 6-7mila ettari siano andati distrutti, con 300 milioni di euro di danni».

La moria dei kiwi è una sindrome multifattoriale in quanto coinvolge quattro fattori, ambiente, suolo, pianta e microrganismi patogeni. In Piemonte è attivo un gruppo di lavoro costituito, tra gli altri, dalla Regione Piemonte e dal Dipartimento di Scienze Agrarie, Forestali e Alimentari-DISAFA dell’Università di Torino, che ha prodotto uno studio acquisito come modello di ricerca da integrare ed estendere su tutto il territorio italiano. La moria del kiwi è rivelatrice di un problema di natura globale, che ha a che fare con le coltivazioni intensive, che stanno favorendo la comparsa di problematiche sanitarie inedite. Il kiwi è sensibile al ristagno idrico, e la moria è anche conseguenza di pratiche di irrigazione che non tengono conto della natura rustica di questa pianta, che ama arrampicarsi alla ricerca di ambienti ombreggiati. Ma non solo.

Le sempre più numerose epidemie fitosanitarie hanno a che vedere oltre che con i mercati globali anche e soprattutto con il riscaldamento globale. Ad accomunare il punteruolo rosso delle palme, la cocciniglia tartaruga che attacca le pinete, la cimice asiatica, la Xylella fastidiosa degli ulivi, la ruggine del caffè, le varie peronospore e tossine prodotte da funghi, fino alla moria del kiwi, è soprattutto il cambiamento climatico, ovvero le alte temperature, in particolare il riscaldamento del suolo e l’innalzamento dell’umidità relativa dell’aria, che portano a condizioni ambientali favorevoli alla diffusione dei patogeni, insetti e organismi nocivi, che in condizioni normali non sopravvivrebbero. A ciò si aggiunge il commercio globale di semi e materiale vegetale, che favorisce con estrema facilità lo spostamento dei parassiti verso nuove aree geografiche, con impatti potenzialmente devastanti su coltivazioni e foreste.

«In Piemonte troviamo patogeni che trent’anni fa erano presenti solamente in Sicilia, e questo a causa dell’aumento delle temperature - aggiunge Maria Lodovica Gullino – Nelle decisioni politiche internazionali si dovrà sempre più tenere conto degli effetti dei cambiamenti climatici e del rischio di arrivi di nuovi parassiti. Non possiamo pensare di risolvere il singolo problema in casa nostra, serve una visione globale e il cambiamento climatico dovrebbe orientare la normativa fitosanitaria di ciascun Paese o regione. Servono adeguati metodi di analisi del rischio e definire le strategie di difesa, anche perché non sappiamo se i fungicidi e i mezzi biologici che usiamo oggi avranno la stessa efficacia anche con temperature più elevate. E soprattutto maggiore condivisione di dati ed esperienze, laboratori più attrezzati ed evitare di finanziare infinite piccole ricerche, puntando su ricerche globali, che poi possono trovare approfondimenti specifici a livello locale».

Maria Lodovica Gullino ha coordinato un gruppo di dieci ricercatori provenienti da tutto il mondo (Spagna, Iraq, Brasile, Australia, Stati Uniti, Sud Africa, Germania, Libano, Cina e Jamaica), che in occasione dell’Anno Internazionale della Salute delle Piante (2020), hanno redatto uno studio internazionale voluto dalla FAO per fare il punto sulla relazione tra malattie delle piante e cambiamenti climatici, e disegnare le migliori strategie di prevenzione e mitigazione dei rischi, che i decisori politici dovrebbero adottare. «La prevenzione e la cura delle malattie delle piante costituiscono fattori chiave per mantenere e preservare la sicurezza alimentare attuale e futura – commenta Maria Lodovica Gullino  -Inoltre, un incremento della diffusione dei parassiti delle piante rappresenta una minaccia per l’ambiente, perché gli organismi nocivi invasivi sono tra le cause principali di perdita di biodiversità. Per limitare la diffusione internazionale di patogeni attraverso gli scambi commerciali e i viaggi, è necessario adottare misure di prevenzione, mitigazione e adattamento che vanno dall’utilizzo di sementi e materiale vegetale sani all’adozione di tecnologie di recente sviluppo, come i metodi innovativi di applicazione degli agrofarmaci. Tra le misure di mitigazione e adattamento a breve e medio termine vi sono l’uso di varietà resistenti e le modificazioni del microclima. È importante incrementare la condivisione delle conoscenze tra esperti come fitopatologi, entomologi, meteorologi, malerbologi, agronomi e microbiologi. Sarebbe inoltre utile rafforzare la cooperazione globale tra esperti impegnati nella tutela della salute umana, animale e dell’ambiente in diversi ecosistemi e ambiti, dal settore agricolo a quello forestale agli ecosistemi naturali, favorendo approcci multidisciplinare a lungo termine che affrontino tanto i problemi dei paesi in via di sviluppo, quanto quelli dei paesi industrializzati. Per garantire sistemi solidi di analisi, sorveglianza e monitoraggio del rischio fitosanitario è necessario rafforzare la cooperazione internazionale e investire anche sullo sviluppo di nuove competenze».

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