l’intervista

Panetta (Bce): «La bassa inflazione ci frena. All’Europa serve un’economia che riesca ad andare su di giri»

di Federico Fubini

Panetta (Bce): «La bassa inflazione ci frena. All'Europa serve un'economia che riesca ad andare su di giri» Fabio Panetta: membro del Comitato esecutivo della Banca Centrale Europea.

Se nell’area euro si è ricreata un’atmosfera di relativa normalità, è per un motivo principale: in poco più di un anno, la Banca centrale europea ha comprato oltre 1.100 miliardi di titoli. In gran parte, del debito con il quale i governi hanno aiutato famiglie e imprese. Fabio Panetta, l’italiano nell’esecutivo della Bce, è fra i principali architetti di questa operazione.

Ora l’economia corre: i governi devono ancora sostenerla in deficit?
«I rischi di una ripresa incompleta sono ancora alti, mentre i rischi di un surriscaldamento dell’economia e di un’inflazione elevata sono contenuti. Nell’economia europea vi sono ancora ampie risorse inutilizzate: persone che non hanno lavoro, impianti che non sono tornati a produrre. Non abbiamo ancora recuperato il livello del Pil che avevamo raggiunto prima della crisi: lo recupereremo solo nei mesi a cavallo tra quest’anno e il prossimo. E siamo ben al di sotto del sentiero di crescita pre-crisi, ossia del punto in cui saremmo se l’economia non fosse stata colpita dalla pandemia. Quel Pil perduto per strada, quella capacità produttiva, quei posti di lavoro distrutti dalla crisi ce li dobbiamo riprendere il prima possibile. Gli Stati Uniti hanno conseguito o stanno per conseguire questi obiettivi e non vedo perché non possa farlo l’Europa. Per questo motivo, la politica fiscale e la politica monetaria devono continuare a sostenere l’economia».

Ma è possibile farlo?
«Certo. Con investimenti pubblici aggiuntivi pari ad appena l’1,6% del Pil, l’eurozona potrebbe tornare già nel 2022 sul trend di crescita pre-crisi. Se l’economia non cresce, soffrono soprattutto i cittadini più deboli. L’Europa ha nuovi strumenti comuni, come NextGenerationEU (NGEU, il Recovery Fund, ndr), possiamo essere ambiziosi. Solo una crescita sostenuta risolverà i problemi dell’occupazione e del debito».

Tutto dipende da come sarà rivisto il Patto di stabilità e crescita. Un sistema come il Recovery Fund va reso permanente?
«La Commissione Europea ha reso noto che la clausola di salvaguardia generale, che consente scostamenti temporanei dai parametri fiscali, rimarrà in vigore fino alla fine del 2022. Dovremmo rendere permanente il sistema di gestione delle crisi introdotto nel 2020? Sarebbe un progresso importante, ma non tutti sono d’accordo, e si possono capire i diversi punti di vista. Gli sviluppi futuri, la possibilità di ulteriori avanzamenti dipenderanno in modo decisivo da come saranno utilizzate le risorse dell’NGEU. È essenziale che i fondi europei siano utilizzati – soprattutto da parte dai paesi che ne beneficiano maggiormente, quali l’Italia e la Spagna – per ristrutturare l’economia, per avviare una fase di crescita di cui tutti possano avvantaggiarsi».

Cioè anche i Paesi economicamente più forti?
«Alla base dell’approvazione del programma NGEU vi è la consapevolezza che in un’area valutaria unica, con economie integrate tutti – anche i paesi economicamente più forti – beneficiano di una crescita diffusa. Chi pensasse di poter crescere da solo si comporterebbe come il barone di Münchhausen, che si voleva alzare da terra tirandosi su per i capelli».

Ma possiamo vendere all’estero. Le auto tedesche le comprano i cinesi, no? «L’Europa è tra le maggiori economie del mondo, non possiamo fare affidamento solo sulla domanda estera. Ci abbiamo provato durante la crisi finanziaria, con l’austerità, a comprimere i consumi interni e a crescere al traino della domanda estera. Non ha funzionato: quello che ottenemmo fu una domanda stagnante, una ripresa fiacca e una lunga fase di inflazione pericolosamente bassa. Dobbiamo stimolare la domanda interna. L’NGEU può contribuire in modo determinante, a vantaggio di tutti. Ad esempio, la Germania otterrà uno stimolo pari a mezzo punto di Pil grazie alla crescita che l’NGEU determinerà in altri paesi europei».

Come valuta il piano italiano per il Recovery Fund?
«In Italia le riforme strutturali in passato sono state come il mostro di Loch Ness: tutti ne parlano, ma di rado si sono viste. Oggi la situazione è diversa. Al contrario di quanto accadde durante la crisi finanziaria, non stiamo programmando le riforme durante una recessione o nel mezzo di tensioni politiche e sociali generate dall’austerità. La riallocazione di risorse tra settori e imprese è più agevole se l’economia cresce. La disponibilità di finanziamenti ingenti da utilizzare per le riforme e al tempo stesso per stimolare la crescita offre condizioni di partenza migliori. Inoltre il piano presentato dal presidente Draghi si basa su un’analisi lucida dei problemi dell’economia italiana: una bassa produttività che si traduce in una bassa crescita, e una distribuzione del reddito e delle opportunità insoddisfacente, anche a livello territoriale».

Sì, ma le risposte?
«Il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR) ha il potenziale per influire positivamente sulla vita quotidiana di famiglie e imprese, con misure volte a rendere più efficienti la Pubblica Amministrazione e il sistema giudiziario. Sono previsti interventi in settori sia “tradizionali” (infrastrutture, turismo, cultura) sia innovativi: oltre agli investimenti per la transizione ecologica, vi sono quelli sul capitale umano, volti a colmare il ritardo digitale tra l’Italia e il resto d’Europa. Con il 40% di risorse destinato alle aree meridionali vi è la possibilità di intervenire sul divario tra Centro Nord e Mezzogiorno – secondo me uno dei principali problemi irrisolti dell’economia italiana».

Non trova che il problema sia l’efficacia dell’esecuzione?
«Certo. L’impatto macroeconomico sarà massimo se la qualità degli investimenti sarà alta. Parliamo di un punto di Pil di differenza. Ma la governance del programma NGEU è stata disegnata avendo a mente questo tema. Ad esempio, i finanziamenti saranno erogati di volta in volta solo se le misure saranno attuate in coerenza con quanto previsto dal PNRR. E credo di non aver bisogno di dire che il Presidente Draghi capisce molto bene l’importanza di utilizzare al meglio ogni euro dei 200 miliardi a disposizione».

Ma l’economia italiana crescerà, dopo il primo rimbalzo?
«Sta già crescendo, e arriverà la spinta dell’NGEU. L’economia italiana beneficerà inoltre degli effetti indiretti generati dallo stimolo che l’NGEU fornirà alle economie degli altri paesi europei».

Un conto è rimbalzare del 5% dopo un crollo, un altro è continuare a quel passo. L’Italia ce la può fare?
«Se le riforme previste dal PNRR riusciranno a modernizzare l’economia italiana, innalzandone il potenziale di sviluppo, nei prossimi anni una crescita a ritmi elevati sarà possibile. C’è una spinta fiscale che fa espandere l’economia, e poi c’è l’effetto delle riforme strutturali».

I governi dicono sempre che abbattono l’evasione e fanno le riforme. Poi tagliano gli investimenti…
«Oggi vi sono le risorse per fare le riforme e vi è un piano coerente. E tutto questo si inserirà in quadro di crescita europea. Dunque tassi di crescita robusti non sono impossibili».

La BCE ha appena approvato la sua strategia di politica monetaria. Secondo alcuni è più restrittiva di quella della Riserva Federale. È così?
«Abbiamo chiarito che vogliamo un tasso di inflazione nel medio termine pari al 2%, non inferiore. Un’inflazione all’1,4 o all’1’5 per cento – come è ora nelle nostre previsioni – non ci soddisfa. Abbiamo anche chiarito che il 2% di inflazione non è un limite invalicabile: se serve per ancorare le aspettative e rendere credibile l’obiettivo del 2%, possiamo salire temporaneamente poco al di sopra. Poiché l’inflazione è stata a lungo inferiore al 2%, è necessario avere valori superiori al 2% per essere simmetrici nel perseguire il nostro obiettivo».

Sembrano sfumature per addetti ai lavori…
«Ma non lo sono. Un obiettivo d’inflazione troppo basso può comprimere eccessivamente i tassi d’interesse e ostacolare gli interventi della banca centrale a sostegno dell’economia. Tutto questo può essere molto costoso in termini di crescita e di occupazione. La nuova formulazione della strategia dovrebbe eliminare i fraintendimenti generati dalla precedente definizione di un’inflazione “inferiore ma vicina al 2%”, che aveva fatto credere che la BCE volesse stare molto al di sotto del 2% e fosse pronta a intervenire non appena sorgesse il rischio che la dinamica dei prezzi potesse oltrepassare quella soglia. In concreto, cosa vuol dire tutto questo per la vostra politica monetaria? Innanzi tutto, che risponderemo con determinazione a shock negativi in grado di comprimere l’inflazione al di sotto del nostro obiettivo. Per gli appassionati di cinema, d’ora in poi quando l’inflazione scenderà al di sotto del 2% la nostra politica monetaria dovrà ispirarsi più ai “Pirati dei Caraibi”, anche se alcuni preferirebbero la “Bella Addormentata”. Quando la dinamica dei prezzi salirà verso il 2% saremo invece pazienti: aumenteremo i tassi solo quando saremo convinti che l’inflazione possa collocarsi stabilmente al 2% nel medio termine in base a una serie di parametri indicati con chiarezza nella nuova forward guidance, relativi all’inflazione sia effettiva sia attesa».

Mi può spiegare perché è importante come viene percepito il vostro atteggiamento nei confronti dell’inflazione?
«La BCE è un’istituzione molto importante per l’evoluzione dell’economia e, soprattutto, per l’andamento dell’inflazione. Se la BCE rende noto che è incline ad accettare un’inflazione molto bassa, gli operatori ne terranno conto. Ne terranno conto i sindacati nella formulazione delle richieste salariali. Ne terranno conto le imprese nella fissazione dei prezzi dei prodotti. Insomma, l’obiettivo d’inflazione della BCE influenza le aspettative di inflazione e, per questa via, l’inflazione effettiva; la sua definizione deve essere pertanto chiara e credibile, al fine di conferire efficacia alla politica monetaria».

Le scelte fatte nella strategia riflettono il fatto che la variante Delta fa paura?
«La revisione della strategia fissa le “regole costituzionali” della politica monetaria, valide per tutti nei prossimi anni. La forward guidance rende operative quelle regole, e indica come reagiremo se la variante Delta dovesse ritardare il ritorno dell’inflazione al 2%. Ma non è una risposta alla variante«.

Ma Delta può ostacolare la ripresa?
«Non sono un epidemiologo, e non so prevedere l’evoluzione del virus. Alcuni paesi europei hanno reintrodotto misure di distanziamento sociale, e non possiamo escludere che questo finisca per frenare la ripresa. L’impatto sarà probabilmente meno forte rispetto alle precedenti ondate. Un po’ perché molti si sono vaccinati, un po’ perché stiamo imparando a difenderci. Ciò detto, la situazione ancora difficile nei paesi emergenti comporta rischi anche per noi».

Essere disposti a tollerare un po’ più di inflazione implica che accettereste un surriscaldamento dell’economia?
«In passato l’impazienza ha indotto la BCE ad aumentare i tassi prematuramente, comprimendo eccessivamente l’inflazione e frenando la crescita. Adesso è chiaro a tutti che per garantire la stabilità dei prezzi può essere necessario, come si dice, “run the economy hot”, mandare l’economia su di giri».

Non è rischioso?
«Al contrario, è il modo per rendere credibile il nostro impegno a riportare l’inflazione al 2%. È la condizione per utilizzare appieno le risorse di lavoro disponibili e per generare pressioni al rialzo sui salari in grado di spingere l’inflazione verso il nostro obiettivo».

Non è che dopo l’estate vi rivelerete più falchi nel ridurre il Pepp, il programma straordinario di acquisto di titoli?
«Il Consiglio Direttivo non ne ha discusso. Non è un segreto che vi siano visioni diverse, e quando una discussione parte da posizioni assai diverse è meglio affrontare e risolvere un problema alla volta. La discussione sui programmi di acquisto di titoli deve avere ancora luogo. Posso dirle quel che penso io...» Dica. «La BCE in questo momento sta facendo ricorso soprattutto a due strumenti: la forward guidance sui tassi d’interesse e gli acquisti di titoli. Non avrebbe senso attuare una politica monetaria espansiva con uno strumento (la forward guidance) e restrittiva con l’altro (gli acquisti di titoli). Il problema fondamentale per me è come utilizzare in modo efficiente gli acquisti di titoli per rafforzare la forward guidance, in particolare per garantire una trasmissione omogenea della politica monetaria nell’area dell’euro».

Cosa le fa pensare che l’aumento dell’inflazione non continuerà nel tempo?
«L’inflazione è aumentata perché sono cresciuti i prezzi del petrolio, che non possono aumentare per sempre. E perché colli di bottiglia nella produzione spingeranno verso l’alto i prezzi di alcuni beni per qualche mese, fintantoché l’economia non tornerà alla normalità. Vi è poi una spinta temporanea dovuta al fatto che di recente l’Iva in Germania è stata aumentata, dopo essere stata ridotta lo scorso anno. Sono tutti fenomeni transitori, che saranno riassorbiti e che avranno effetti solo temporanei sull’inflazione».

Negli Stati Uniti e nell’area euro banche centrali e governi stanno lavorando insieme per sostenere l’economia. Secondo alcuni ciò può ledere l’indipendenza delle banche centrali. È d’accordo?
«In questo momento la coerenza fra politica monetaria e politica di bilancio è essenziale: con tassi d’interesse negativi, bassa inflazione e domanda debole la politica monetaria e quella di bilancio hanno entrambe l’obiettivo di riportare l’economia ad operare a pieno regime. Durante la pandemia le famiglie e le imprese erano paralizzate dai lockdown e dall’incertezza sul futuro, e tutti concordavano sull’opportunità che banche centrali e governi spingessero nella stessa direzione. Interventi monetari e fiscali coerenti tra loro sono tuttora necessari al fine di riportare l’inflazione stabilmente al 2%. La nostra forward guidance dà visibilità sull’evoluzione futura delle condizioni finanziarie, consentendo ai governi di intervenire senza timori di un aumento prematuro del costo dell’indebitamento».

Qualcuno teme che ciò dia luogo a una dominanza fiscale, l’asservimento della banca centrale agli obiettivi dei governi...
«Quando la salvaguardia della stabilità dei prezzi richiede interventi fiscali, se la politica monetaria consente alla politica fiscale di operare non genera dominanza fiscale. Al contrario, si tratterebbe di dominanza monetaria, in quanto la banca centrale starebbe di fatto asservendo la politica fiscale al raggiungimento del suo obiettivo d’inflazione».

Come spiega a una persona comune che l’euro digitale migliora la sua vita?
«Oggi i cittadini europei pagano sempre di più con strumenti digitali privati – pensi alle carte di credito – ed effettuano sempre più acquisti online. Queste tendenze limitano la possibilità di utilizzare le banconote, che offrono a tutti la possibilità di realizzare pagamenti senza rischi e senza costi. L’euro digitale si affiancherà al contante, consentendo anche in futuro, in un mondo digitale, di utilizzare un mezzo di pagamento accettato da tutti, senza rischi e senza costi. Nessuno sarà lasciato ai margini del circuito di pagamento. Avere l’euro digitale sarà come avere il contante, ma in forma digitale».

Vi state muovendo perché temete che la valuta digitale cinese o Diem, la moneta di Facebook, si prendano il mercato europeo?
«Non è il motivo principale. Se i cittadini vogliono pagare digitalmente o effettuare acquisti online, lo Stato – la banca centrale – deve fornire loro gli strumenti per farlo. La moneta è il simbolo della forza, della stabilità, della affidabilità dello Stato. Uno Stato senza moneta sarebbe impensabile, sarebbe un sovrano dimezzato. Per questo motivo in un mondo che diventa digitale la BCE sta valutando la possibilità di affiancare al contante un suo mezzo di pagamento digitale. Ciò detto, non è che non ci siamo accorti che la Cina e Facebook lavorano per emettere mezzi di pagamento elettronici. L’ euro digitale proteggerebbe la sovranità monetaria europea. Ma non credo che l’eurozona sia particolarmente vulnerabile alla diffusione di una valuta digitale cinese o all’utilizzo di uno strumento di pagamento digitale privato. E non vi è necessità delle cosiddette stablecoins: strumenti stabili soltanto nel nome».

Perché non sarebbero stabili?
«Perché non possono garantire al 100% il valore degli strumenti che emettono. E non si può offrire ai cittadini un mezzo di pagamento che domani potrebbe valere meno di oggi. La banca centrale può invece garantire al 100% il valore dei mezzi di pagamento che emette. Anche le banche possono farlo, in presenza di una serie di meccanismi di salvaguardia previsti dalla legge: la vigilanza, la garanzia dei depositi, i requisiti di capitale. Per rendere le stablecoins davvero stabili è necessaria una attenta regolamentazione. Gli interventi in corso da parte della Commissione Europea (con il regolamento relativo ai mercati delle cripto-attività) e dell’Eurosistema (con il varo del sistema di sorveglianza sugli strumenti elettronici di pagamento) vanno nella giusta direzione e pongono l’Europa all’avanguardia. Ma i rischi per i cittadini sono ancora assai elevati. Diem è pronta a offrire alla Bce e alla Federal Reserve, la possibilità di distribuire la moneta digitale mediante la loro infrastruttura. “Questo è il contrario del Padrino: un’offerta che non si può accettare. È un’offerta perfetta per Facebook, non per l’economia europea. Non possiamo mettere nelle mani di un monopolista privato l’intero sistema dei pagamenti, che deve consentire ai cittadini di fare la spesa tutti i giorni, di ricevere stipendi e pensioni, di accedere ai propri risparmi. Sono compiti e funzioni da cui la banca centrale non si può ritrarre. Solo la banca centrale può offrire questi servizi con l’unico fine di garantire il benessere della collettività».

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