Cronaca

Giorgio Conte: “Io e Paolo fratelli separati dalla musica”

Giorgio Conte: “Io e Paolo fratelli separati dalla musica”

Intervista a Giorgio Conte fratello più piccolo del cantautore Paolo Conte. Ottanta anni, anche lui è avvocato, compositore, cantante e scrittore

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Lo stesso sangue a volte divide le vite nate dallo stesso grembo, apre una crepa invisibile a occhio nudo tra due parti quasi uguali. E il quasi è per sempre. Il primo ricordo infantile di Giorgio Conte sfiora il dramma: «Eravamo in vacanza a Balme, nella valle di Lanzo. Era inverno. Una notte fui colpito da un attacco di peritonite acuta. Sdraiato sul sedile posteriore della nostra vecchia Lancia Artena, tornammo ad Asti, alla clinica Fasano, dove l’omonimo chirurgo disse che non c’era tempo da perdere. Mi addormentarono con un tampone di cloroformio e fui operato d’urgenza. Poi la ferita, le medicazioni, una lunga degenza. Il pizzardone semovente regalatomi da Ferruccio, un amico di famiglia, il bicchiere di neve, zucchero e limone preparato da mio padre, la fascia elastica e i primi passi sugli sci per mano alla mamma. Avevo cinque anni, Paolo nove». Oggi Giorgio Conte ha 80 anni: è avvocato, compositore, cantante, scrittore. Paolo Conte ne ha 84: è avvocato, compositore, cantante, pittore. Solo che Paolo Conte è un artista celebrato in tutto il mondo, Giorgio, invece, nonostante non gli difetti il talento, è il fratello di.
Ognuno di voi non parla spesso dell’altro. Sarà il carattere o la gelosia?
"Né l’uno né l’altra. Di battute sulla fratellanza ne ho dette non poche. Una su tutte: ho sempre avuto dubbi su come vestirmi in scena, Paolo no. Il fatto è che in famiglia di smoking ce n’era uno solo ed era sempre occupato".
Due musicisti nati dentro la musica e nati “bene”, si può dire? Vostro padre Luigi era notaio, sua moglie Carlotta proprietaria terriera.
"Papà suonava un gran bene il pianoforte. Nel suo repertorio canzoni francesi, Alberto Rabagliati, Ernesto Lecuona, “Ramona” di Luciano Virgili, “Siboney” interpretata da Connie Francis. Il suo stile si avvicinava molto a quello del pianista britannico Charlie Kunz. Che delizia ascoltarlo. Mia madre, liceo classico, decoratrice di ceramiche cotte al forno, come le mele. Io contestavo la barbosità della professione notarile, cercavo un’alternativa ai progetti paterni e mi ero invaghito di Albert Schweitzer che curava i lebbrosi in Africa e suonava l’organo nella jungla. Così mi iscrissi a medicina, ma non funzionò. Ripiegai sull’avvocatura, avendo fatto cilecca ripetutamente al concorso notarile. Paolo il concorso non lo tentò neppure, evitando di illudere il babbo".
Avete provato a stare in coppia, ma il matrimonio non è durato.
"Quattro anni di differenza non sono molti ma neppure pochi. Io la vedo così: compagnie diverse, ragazze più alte, io mi intrufolavo e a Paolo questo dava un certo fastidio. Certi miei amici, lui non li sopportava. E io uguale con i suoi. Poi trovammo una quadra: capimmo che gli amici che sarebbero potuti andar bene a entrambi erano quelli che sapevano suonare uno strumento. Nacquero la Original Dixieland Barrel House Jazz Band, la Lazy River Band Society, il Paul Conte Quartet. Io alla batteria, lui al vibrafono. E poi cominciammo a scrivere canzoni".
La stessa musica che vi ha unito, vi ha poi separati?
"Proprio così e credo che lo sapessimo tutti e due che sarebbe stato solo questione di tempo. Senza rancore. Già, perché scrivere canzoni è una cosa seria e il rigore stilistico, il gusto personale, la ricerca armonica, vanno difesi a spada tratta. Si impone l’urgenza di proteggere il proprio estro da qualsiasi compartecipazione o ingerenza, pur anco fraterna".
Lei, però, ha tenuto Paolo in alcune sue canzoni. O si tratta di una impressione sbagliata?
"Credo di aver riassunto la nostra adolescenza in una canzone, il cui testo fa così: c’era una volta una casa con dentro una chiesa, una pianola, un biliardo. C’era una volta una casa, davanti un giardino, due cedri giganti e quanto tempo caro Paolino, quanto tempo doveva passare, prima che le nostre dita, abbracciandoli, si potessero infine toccare. C’era una Balilla e una salita, di sabbia in estate, di fango in autunno, c’era un cavallo con gli occhi bluastri e un po’ d’erba tra i denti. C’erano una volta partigiani e soldati, c’era la guerra su tutta la terra e anche vicino alla casa, mitra e fucili tra le siepi e le rose. C’era un gufo di notte, c’era uno sparo nel buio e poi un volo leggero di stoffa, e grilli fin quasi al mattino. E nella veranda c’era la pianola. “Lavarsi le mani!” poi strimpellavamo... Ormai, mio caro Paolino, abbiam smesso da tempo di lavarci le mani prima di suonare su quella pianola che poi abbiamo ereditato, ormai non c’è più niente da dire".
Paolo è il jazz, lei il pop. Nelle vostre voci si sente il sentimento della terra che vuole andare a vedere il mare. Po ci sono la campagna e Asti, una città di mezzo.
"Essere di Asti durante la mia fanciullezza significava provenire da terre lontane e sconosciute. Mi chiedevano: di dove sei? E io rispondevo: vicino a Torino, tanto per pararmi da un imbarazzo. Ma questi insistevano. Vabbè, sono di Asti. Di dove? Asti, l’Asti spumante avete presente? Poi rincaravo la dose: Asti, che ha dato i natali a Vittorio Alfieri, quello di volli, sempre volli, fortissimamente volli! Niente da fare, rimanevamo piemontesi di serie B. Con gli anni questo posto è diventata la mia culla dolce, un rifugio dove sedersi e aspettare senza paura qualsiasi cosa accadrà".
Quali odori della gioventù ha conservato nella mente e sulla pelle?
"Di nafta del trattore arancio, di olio di mandorle della Lambretta, del fieno nei silos, di latte appena munto, delle scoregge in compagnia, dell’acqua di colonia di mio padre, della cipria di mia madre, di borotalco della Moncalvina che mi ha iniziato al sesso, di ozono dopo un temporale, di ferro e scintille dell’autopista alle giostre. E poi di animali bagnati. Tabuj di campagna, spinoni, pointer e setter inglesi. Cavalli da tiro: Dora, Pulu e Moro, il mulo americano e l’asinello Checca che trottava come una sposa».
Nella sua piemontesità c’è il richiamo della Francia, quella sua smorfia snob che piace tanto al di qua delle Alpi. Una strana sorellanza anche questa.
"Noi piemontesi con i cugini francesi ridiamo delle stesse cose, abbiamo lo stesso senso dell’umorismo malinconico. Credevo, per esempio, di aver trovato finalmente un mio look sufficientemente dégagé per il mio primo concerto in Francia e invece, scrissero il giorno dopo, il pubblico fremeva sulle gradinate, ansioso di scoprire Giorgio Conte, ed ecco che sul palco avanza un large bonhomme grisonné, con le scarpe da lavoro e il portafoglio che sbuca dalla tasca. Sicché tutti, nessuno escluso, credettero che nel teatro fosse scoppiato un tubo dell’acqua e finalmente il plombier, l’idraulico, fosse arrivato per aggiustarlo".
Ha ragione Francesco Guccini quando dice che non vale più la pena ascoltare la musica di oggi?
"C’è più roba brutta che bella, qualcosa si salva, ma l’atmosfera generale è pesante e sgradevole, per dirla alla francese: dégueulasse, disgustosa. Ormai ascolto solo Thomas Fats Waller, Duke Ellington, Teddy Wilson e Art Tatum, ma soprattutto Earl Hines, poiché quello di non essere riuscito a diventare un pianista jazz, è come per Woody Allen, il mio vero rimpianto".
Lei ha da poco scritto una canzone bella e commovente, “Stringimi forte, abbracciami”, per celebrare quella che ci auguriamo sia l’uscita dalla pandemia, ricevendo il grazie del ministro della Cultura Dario Franceschini. Si è preso spavento, come dicono dalle sue parti?
"Sono stato fortunato. Il Covid mi ha fatto rivivere sensazioni provate durante l’alluvione del ’94: la città allagata, la pianura allagata, morti ovunque. Guardavo il disastro dall’alto, al sicuro in collina, aspettando di scorgere il deflusso delle acque del Tanaro, convinto che presto tutto sarebbe tornato come prima".
Riveniamo a Paolo. Qual è la cosa fatta assieme che più l’ha emozionato?
"Una giornata al mare, parole di Paolo Conte e musica di Giorgio Conte. L’apice della fratellanza".
Il dispetto più grande?
"Mi faccia pensare, forse l’ho trovato. Abbiamo entrambi la passione per le auto. Quella che rimpiango e sempre rimpiangerò è la Porsche gialla 365 bigriglia, freni a disco anteriori e luce del cruscotto verde. Ne ero talmente geloso che non l’ho mai prestata a nessuno, neanche a mio fratello".
Qual è il principale difetto di Paolo Conte?
"Troppo introverso".
E il suo, se lo domandassimo a Paolo?
"Troppo spudorato".