Viktor Orbán, ascesa e svolta autoritaria del tribuno che l’Europa ha blandito

di Paolo Valentino

Nato nemico dei tiranni, finanziato da George Soros (che poi ha rinnegato) il premier ungherese ha creato la «democrazia illiberale». Quando disse: alle urne non perderò più

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DAL NOSTRO CORRISPONDENTE
BERLINO — Quando andai a trovare Ágnes Heller nella sua casa di Budapest, alla vigilia delle elezioni ungheresi del 2018, la filosofa dei «bisogni radicali» era fuori di sé. «Viktor Orbán», mi disse, «ha abolito la libertà di stampa, usa i fondi europei per arricchire amici e familiari, mentre scuole e sanità pubblica sono in una situazione tragica. E vuole controllare anche la cultura: sa che nell’unico libro di Storia ora in uso nei licei, l’ultimo capitolo è dedicato a lui? Non l’aveva fatto neppure Janos Kádár, ai tempi del regime comunista. Orbán è ormai un tiranno».

Heller è morta nel 2019, a 89 anni. Ma il suo cahier des doléances circa il premier ungherese è più attuale che mai. Viktor Orbán vanta la sua vocazione autoritaria, per la quale ha perfino coniato l’ossimoro «democrazia illiberale». In undici anni ha trasformato l’Ungheria in un Paese dove i media sono sottoposti a censura, i diritti dell’opposizione calpestati, la magistratura risponde al governo, le minoranze etniche sono discriminate, quelle Lgbt di fatto perseguitate e l’antisemitismo alimentato ad arte.

L’Europa finalmente si indigna e agisce di fronte all’ultima bravata del provocatore di Budapest: una legge che proibisce di discutere dell’omosessualità con i giovani. Ma per anni è stata neghittosa e distratta, qualche volta sgridandolo, il più delle volte blandendolo. La polizza d’assicurazione di Orbán è stata fino a pochi mesi fa l’appartenenza al Ppe, da cui alla fine è uscito per evitare l’espulsione e al quale portava voti e peso nell’Europarlamento, nonostante la palese incompatibilità sua e del suo partito Fidesz con i cristiano-democratici e i loro valori. Solo da dicembre 2020, aggirando il veto di Orbán, l’Ue ha adottato la condizionalità che lega al rispetto dello Stato di diritto l’erogazione dei fondi europei, che in Ungheria sono quasi l’8% della spesa pubblica.

Eppure, Viktor Orbán non è nato tiranno. Anzi, i tiranni comunisti li ha combattuti nella rivoluzione del 1989, quando diventò figura salvifica del movimento democratico. Così carismatico e brillante che quando il filantropo ebreo-americano di origine ungherese George Soros lo conobbe, decise di finanziare il suo partitino, Fidesz appunto, e di pagargli una borsa di studio a Oxford per fare ricerca sulle società civili. Se ne sarebbe pentito amaramente.

Prove di autoritarismo

Nel 1998 Orbán viene eletto premier alla guida di una coalizione liberal-democratica. Ma la sconfitta del 2002 lo coglie di sorpresa. Da quel momento giura che non sarà mai più battuto alle urne: «Dobbiamo vincere una volta, poi faremo la cosa giusta», dice in un discorso a porte chiuse che i media ungheresi, allora senza censure, rivelano. Deve aspettare il 2010, quando i suoi avversari socialisti sono travolti dagli scandali e dalla recessione. Orbán torna al potere con una maggioranza di due terzi, in grado di cambiare la Costituzione. E subito si reinventa campione di una battaglia di civiltà, in difesa della famiglia, della cristianità e della nazione contro «la santa alleanza dei burocrati di Bruxelles, dei media progressisti e del capitale internazionale». In pochi anni, Orbán ridisegna i collegi elettorali per favorire Fidesz, aumenta il numero dei giudici costituzionali e impone loro il ritiro a 62 anni per poter riempire la Corte Suprema di fedelissimi, crea un organismo centrale per i media controllato dal governo, toglie l’insegnamento universitario a centinaia di professori liberali, cambia i direttori dei teatri mettendovi uomini di sua fiducia.

Il «complotto» di Soros

Il suo momento di gloria arriva nel 2015, con l’apertura della rotta balcanica e l’arrivo di migliaia di rifugiati siriani, che dalla Grecia cercano di arrivare in Germania passando da Macedonia, Serbia, Ungheria e Austria. Orbán prima li blocca, poi li fa partire quando la cancelliera Merkel annuncia che terrà aperte le frontiere tedesche. Quindi sigilla i confini col filo spinato. Ma soprattutto aizza l’isteria popolare, descrivendo l’ondata migratoria come una cabala odiosa, orchestrata da «un nemico diverso da noi, non aperto ma nascosto, non diretto ma obliquo, non onesto ma spregevole, non nazionale ma internazionale, che non crede al lavoro, ma specula col denaro». Tutti gli stereotipi del più schifoso antisemitismo sono ben evidenti. Non contento, Orbán sceglie anche un capro espiatorio, additando come capo della congiura sistemica contro l’Ungheria proprio il suo antico mentore, George Soros. La campagna contro Soros ha un obiettivo pratico, la Central European University, l’ateneo che il filantropo ha fondato a Budapest dopo la fine della Guerra fredda e diventata uno dei migliori centri di studio del Centro Europa. Orbán, che la considera un covo sovversivo, la costringe a sloggiare, strangolandola a poco a poco attraverso una successione di modifiche di legge e atti amministrativi.

L’attacco ai media e la «cleptocrazia»

Non c’è solo la censura. Una politica di pressioni e regole sulla pubblicità ha fatto sì che dal 2017 il 90% dei media privati appartengano allo Stato o a imprenditori vicini a Fidesz. «Cleptocrazia» è la definizione che i principali osservatori internazionali sulla corruzione danno dell’Ungheria, dove il governo di Orbán controlla l’intera economia e assegna a chiamata diretta i più importanti contratti pubblici. Che vanno sempre agli amici degli amici.

24 giugno 2021 (modifica il 25 giugno 2021 | 08:49)