Indro Montanelli visto da molto vicino. Vent’anni dopo

di FRANCESCO BATTISTINI

«Un italiano contro» (in libreria da giovedì 24 giugno) racconta un protagonista del ’900 a due decenni dalla scomparsa. Direttori, compagni di imprese editoriali, colleghi

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Indro Montanelli (1909-2001; foto Mondadori Portfolio/Giorgio Lotti)

Salendo a Fucecchio lo scalone di casa Montanelli, che poi non fu la sua vera dimora ma è dove han trovato alloggio i suoi memorabilia, dal muro ti fissano due enormi occhi che paiono un monito. Hanno il colore della Lettera 22, e ancora brillano. Mai chiusi, come la sua bocca senza bavagli, e a differenza del naso che invece gli capitava di doversi turare per votare Dc, o quando a tavola gli servivano roba troppo cucinata. «Se debbo chiudere gli occhi senza sapere da dove vengo e dove vado — diceva lui —, valeva la pena che li aprissi?».

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La copertina del libro

Vent’anni dopo, ovunque egli sia, sa bene che ne è valsa la pena: quel che fu, lo dovette a Fucecchio; quel che diventò, lo dovette a Milano; quel che è ancora oggi, non lo deve certo alla statua stile Rockets che gli han dedicato nei giardini di piazza Cavour. Lo deve ai lettori e agli imitatori, agli ammiratori e ai detrattori, agli affreschi e agli imbratti, alle curate nostalgie e ai ricordi sott’odio che si conservano ben oltre la lunga e tormentata esistenza d’«Indro Montanelli, giornalista», come volle si scrivesse alla sua morte. Forever Indro. Solo a nominarlo, vent’anni dopo, tintinnano ancora le sciabole e ci si sfida a duello: qualche giorno fa, appena seduto sulla tolda di direttore del «Giornale», il nocchiero Augusto Minzolini è stato salutato da Marco Travaglio come il peggior successore possibile di Montanelli. E ha ricambiato, accusando Travaglio di «millantare una discendenza diretta» dal Gran Toscano.

Noi&lui. Gli italiani, e non solo i giornalisti, si dividono tra chi lo leggeva amandolo e chi l’amava vergognandosene. Maurizio Costanzo quattordicenne gli scriveva lettere nelle ore di ricreazione del ginnasio, corrisposto. E se nell’archivio di Fucecchio sfogliate le annate di posta dei lettori, vi troverete qualche firma allora sconosciuta e oggi da prima pagina. Una volta Oriana Fallaci, che apertamente lo detestava, fu coinvolta nel progetto d’un libro a quattro mani e confessò la sua «comprensibile timidezza» all’idea di scrivere insieme. Perfino Piero Ottone, che pure l’aveva costretto ad andarsene dal «Corriere», l’ha sempre considerato il più grande di tutti. Nel libro Un italiano contro. Il secolo lungo di Montanelli (edizioni Solferino, in edicola da giovedì 24 giugno) — raccolta di testimonianze da Paolo Mieli a Sergio Romano, da Ferruccio de Bortoli a Beppe Severgnini, da Gian Antonio Stella a Fernando Mezzetti, da Luigi Offeddu ad Aldo Cazzullo, da Donata Righetti a Giangiacomo Schiavi, da Isabella Bossi Fedrigotti a Dino Messina, da Antonio Carioti a Pier Luigi Vercesi —, si racconta come la camera ardente alla clinica Madonnina fosse ormai chiusa, la sera del 23 luglio 2001, quando un uomo s’avvicinò e fece chiedere alla nipote Letizia Moizzi se fosse possibile riaprirla un attimo. Quell’uomo era Franco Bonisoli, uno dei brigatisti che l’avevano gambizzato nel 1977. Siccome doveva rientrare in carcere e aveva poco tempo, gli aprirono. L’ex terrorista accarezzò il volto del giornalista. Poi scrisse qualche parola sul registro: «Grazie, Indro, grazie di cuore di tutto. Con affetto».

Montanelli-fu-ferito-fu-ferito-ad-una gamba, e pure all’altra, ma non avrebbe apprezzato d’essere commemorato alla Garibaldi con tanto di monumento e visite guidate alla casa natale. Figuriamoci tutta la retorica delle prefiche traditrici e poi santificatrici. Di chi simula consuetudini mai avute e intanto scavalca la fila dei legittimi eredi. In fondo, è destino. Un po’ tutti nella vita abbiamo incrociato qualcosa di Montanelli: narra de Bortoli che a un dopopranzo nell’appartamento di Porta Venezia, mentre sorseggiavano il caffè, un muratore passò su un ponteggio del palazzo in restauro, guardò dentro la finestra e s’illuminò di meraviglia, quando vide chi vi abitava... Per molti, è stato quasi un precettore: «Il maestro delle parole da non usare — spiega Severgnini —, dei libri da non scrivere, dei commenti crudeli da non fare, della gente da non frequentare, delle tentazioni cui resistere». Con Montanelli si continua a fare i conti, anche senza saperne granché: il ragazzino che l’anno scorso ha lordato di vernice rossa la statua milanese, tele-trasportando la rabbia del Black Lives Matter nell’Abissinia dell’altro secolo, stava ancora nel girello quando l’odiato razzista non c’era già più. «Mio padre era un vero e proprio fan — ricorda Isabella Bossi Fedrigotti — e il suo “Giornale” era una specie di Bibbia (…). Vedeva il mondo attraverso gli occhi di Montanelli, si lasciava spiegare la realtà da lui».

L’Indro-latria gli dava l’orticaria, ma non poteva sottrarsi al culto della personalità: se cadeva in depressione e i suoi editoriali latitavano, scendevano anche le tirature. Così gli toccava la devozione. A lui, che coi preti andava cauto quasi quanto coi comunisti: «Io sono un laico, laicone, laicaccio — ebbe a confessare prima di morire —, ma molto interessato a questa faccenda della Chiesa. Che io sento, pur restando con tutti i miei dubbi laici, come una mamma che mi allatta». A proposito di bibbie e turiboli: ai tempi in cui aveva fondato «La Voce», ci fu un lettore che in un editoriale scovò una citazione un filo imprecisa su Davide re d’Israele. E senza conoscerlo, gli fece avere una Bibbia rilegata in brossura rossa e con un biglietto. Montanelli accettò l’omaggio. Incassò la fraterna correzione. E con la grandezza di chi sa ammettere gli errori, pubblicò il biglietto rispondendo, sincero, di non avere mai letto il Libro dei libri. Allora non esistevano i social, ma fu come se. Si scatenarono tutti, e apriti cielo: poteva un intellettuale non conoscere i Due Testamenti? Montanelli venne crocifisso, specie da quelli che il sacro lo frequentavano meno di lui. Ma non se ne fece problema. E non ne fece più parola. Chissà se la lesse mai, quella Bibbia. Di sicuro se la tenne, mandandola a Fucecchio con gli oggetti cari. È ancora là, proprio dietro la Lettera 22.

Il libro e l’incontro

Esce giovedì 24 da Solferino Un italiano contro. Il secolo lungo di Montanelli, a cura di Pierluigi Vercesi (pagine 208, euro 16). Il saggio, dedicato a Indro Montanelli (Fucecchio, Firenze, 22 aprile 1909 - Milano, 22 luglio 2001) a vent’anni dalla scomparsa, contiene testi di Ferruccio de Bortoli, Paolo Mieli, Pier Luigi Vercesi, Sergio Romano, Antonio Carioti, Gian Antonio Stella, Isabella Bossi Fedrigotti, Fernando Mezzetti, Dino Messina, Luigi Offeddu, Beppe Severgnini, Aldo Cazzullo, Donata Righetti, Giangiacomo Schiavi. Per la prima volta sono riuniti gli scritti degli ultimi due direttori di Montanelli (Mieli e de Bortoli), dei giornalisti che parteciparono con lui alla fondazione del «Giornale» e della «Voce» e di coloro che lo hanno conosciuto da vicino.
Giovedì 24 alle 21, nell’ambito di Passaggi, il festival della saggistica che si tiene a Fano (Pesaro e Urbino), è in programma l’incontro Indro Montanelli visto con gli occhi di Beppe Severgnini. In piazza XX Settembre, Beppe Severgnini parlerà del libro al quale ha contribuito in una conversazione con Alessandra Longo

24 giugno 2021 (modifica il 24 giugno 2021 | 10:07)