Area Marina: «Silenzio, Bruno!»

«La cultura ci permette di capire che ciò che non conosciamo non ci deve necessariamente spaventare»
Area Marina «Silenzio Bruno»

Tanti in questi giorni attendevano con ansia l’arrivo di Luca, il nuovo lungometraggio d’animazione Disney Pixar, un po’ perché ogni volta che la Pixar sforna qualcosa abbiamo già pronto il pacco di fazzoletti, ma anche perché stavolta insieme ai fazzoletti ci siamo portati dietro una buona dose di orgoglio. Sì, perché Luca è ambientato in Italia, e precisamente nelle Cinque Terre.

Mentre giornali e web discutono su quanto sia ben rappresentata l’Italia, o da cosa abbia tratto ispirazione il regista Enrico Casarosa, io preferisco soffermarmi sulla narrazione che parla di crescita e di amicizia, ma anche e soprattutto di pregiudizio. Se dovessi riassumere il film in una sola frase, quella che sceglierei sarebbe senza dubbio “silenzio, Bruno!”. Queste sono le parole che Luca dice ogni volta che la voce nella sua testa (soprannominata appunto Bruno) cerca di scoraggiarlo.

Ambientato in Liguria negli anni Cinquanta, Luca è la storia di una creatura marina che fuori dall’acqua assume sembianze umane, e che con l’aiuto dei suoi amici impara a superare le sue paure.

Il nostro protagonista vive negli abissi insieme alla sua famiglia, sua madre lo ha sempre preparato ai pericoli presenti fuori dall’acqua come solo una madre apprensiva sa fare, una madre consapevole che il pregiudizio può portare a terribili conseguenze. Ma Luca sente forte il desiderio di libertà e di esplorare il mondo, così insieme al suo amico Alberto decide di andare nella “città dei terreni”. Qui Luca incontra Giulia, una ragazzina che lo aiuterà a comprendere che quello che rende le persone davvero libere è la cultura. La cultura ci permette di capire che ciò che non conosciamo non ci deve necessariamente spaventare.

Eppure nonostante Luca sia un film che ci spinge a non avere paura, sembra che questa sia ancora molto presente quando cerchiamo di raccontare nuove storie. Come ha detto Francesca Vecchioni, fondatrice e presidente di Diversity, la maggior parte dei prodotti più inclusivi sono diretti a un pubblico giovane, mentre produzioni di questo tipo dedicate a un pubblico adulto sono molto meno.

Esiste una grande resistenza ad aprirsi a nuove rappresentazioni, o anche semplicemente osare andando fuori dai paradigmi già testati. È importante interrogarsi su tutto questo perché la visione delle storie sul piccolo e grande schermo ha da sempre un grande impatto sulla nostra vita. E poiché la maggior parte di quello che ci viene raccontato passa sempre attraverso la stesse lenti, una grandissima fetta di mondo rischia di non arrivare a noi.

Sappiamo bene quanto l’industria audiovisiva investa pochissimo in nuove narrazioni, e lo vediamo non solo dalla difficoltà a pensare certe tematiche per un pubblico adulto, ma anche dalla prematura cancellazione di quei pochi prodotti che riescono a sfondare il soffitto di cristallo.

Come donna disabile posso contare sulle dita di una mano i prodotti audiovisivi in cui mi sono sentita rappresentata, e questo per darvi la percezione di quanto siano rari. Ciò che guardiamo sullo schermo ci influenza da sempre, e se non riusciamo a vederci avremo sempre la sensazione di essere invisibili, così come le persone intorno a noi avranno sempre una visione parziale e stereotipata delle nostre vite.

L’accoglienza positiva che però ricevono quei prodotti scritti, diretti e interpretati da persone marginalizzate mi fa pensare che tutta questa riluttanza non ha ragione di esistere.

A questo punto, miei cari produttori e broadcaster, penso sia arrivato il momento di cominciare a vincere certe resistenze, i tempi sono maturi e il pubblico è desideroso di immergersi in nuove storie. E se poi arriva una vocina a dirvi di non rischiare, opporsi è facile. Basta dire: “silenzio, Bruno!”