Se fossi un calciatore della Nazionale, domenica probabilmente non mi sarei inginocchiato e ora passerei un sacco di guai. Dico probabilmente perché forse avrei ceduto alla viltà e per risparmiarmeli, i guai, mi sarei inginocchiato come i più. Infatti i nostri rimasti in piedi devono ora rispondere dell’accusa di razzismo perché se ti inginocchi – a mimare l’assassinio di George Floyd – sei buono e antirazzista, ma se non lo fai sei razzista e cattivo. Come tutte le cose che non costano niente, inginocchiarsi non fa danno, specialmente a sé: è una facilissima autodichiarazione di irreprensibilità. Questo umiliante manicheismo di stampo liceale – ma senza lo slancio genuino dei quindicenni – nella vita interconnessa è diventato particolarmente invasivo e ricattatorio, ma è una via di fuga antica. In un suo bel libro (Il desiderio di essere come tutti), Francesco Piccolo raccontava della mania degli appelli: vuoi firmare un appello contro i bambini che muoiono in mare? Vuoi firmare un appello contro la violenza sulle donne? Vuoi firmare un appello contro la guerra e a favore della pace? Ne segue sempre uno scialo d’inchiostro, perché è molto brutto che i bambini muoiano in mare, o le donne siano violentate, o addirittura che la pace non abbia ancora trionfato, e se non firmi è perché sei fascista. Un gesto, una firma, un click, è quanto basta per mettersi a posto la coscienza e schierarsi dalla parte giusta del mondo, e per puntare il dito con l’infallibilità di un mirino sulla parte cattiva. Senza nemmeno doversi alzare dal divano. E questo mi sembra puro fascismo all’italiana.