18 giugno 2021 14:17

Questo articolo è stato pubblicato il 5 giugno 2020 sul numero 1361 di Internazionale. Il 12 giugno 2021 ha vinto il premio Pulitzer nella categoria Feature writing.

Nella foresta pluviale sta facendo buio quando i camerunesi e i pachistani arrivano al campo. Hanno tutti tra i 20 e i 40 anni e sono carichi di zaini, tende e borse. Hanno le calosce sporche di fango e sembrano storditi. Stanno cercando di capire chi occupa la piccola radura che gli è appena apparsa davanti. È una spianata di terra punteggiata di tronchi e brandelli di tende. Alcuni uomini riposano su amache appese agli alberi. L’unico lusso è una cucina coperta da un telo: ci sono un tavolo di legno grezzo, un paio di fuochi da campo e alcune pentole annerite appoggiate sui sassi.

I quattro pachistani, i primi ad arrivare, respirano affannosamente. La maggior parte dei camerunesi – in totale sono 18 – prosegue verso il fiume vicino, lasciando penzolare in acqua le custodie plastificate dei passaporti mentre si bagna il viso. Una donna di nome Sandra se ne sta immobile, dolorante. Ha 23 anni ed è una delle più giovani del gruppo. Si toglie lo zaino e si siede su un tronco, stringendo le ginocchia. È preoccupata per la sua amica Benita, che ieri si è presa una distorsione al ginocchio. Quando la vede arrivare zoppicando, appoggiata a un bastone, Sandra alza lo sguardo. “Quanti giorni mancano?”, chiede, a nessuno in particolare.

Sandra e il suo gruppo sono partiti due giorni fa dalla Colombia nordoccidentale e hanno camminato per più di venti chilometri lungo i sentieri ripidi e impietosi di questa lingua di terra chiamata Tapón del Darién (il tappo del Darién). Al confine tra Panamá e la Colombia, il Darién è una distesa di circa 25mila chilometri quadrati di foreste pluviali, montagne e paludi. Non ci sono strade. L’unico modo per aggirarlo è via mare. È considerato una delle regioni più pericolose del mondo, un corridoio per il traffico di droga infestato di giaguari e serpenti velenosi. Ma questo non impedisce a migliaia di migranti provenienti da Africa, Asia meridionale, Medio Oriente e Caraibi di attraversarlo nella speranza di raggiungere gli Stati Uniti.

I pachistani e i camerunesi sono stati accompagnati al campo da un trafficante di esseri umani contattato in Colombia. I trafficanti usano il campo come stazione di passaggio, un posto dove consegnare i migranti ad altri coyote che poi li condurranno nell’entroterra. È un complicato sistema clandestino che i migranti capiscono a malapena. Molti non hanno idea di quanto tempo ci voglia per attraversare il Darién. I camerunesi hanno consumato quasi tutte le riserve alimentari e cominciano ad accalcarsi intorno alla cucina. Nel mezzo della foresta pluviale, riso e pollo sono un lusso inaspettato. Quando qualcuno prova ad afferrare un piatto, un trafficante gli dà uno schiaffo sulla mano. Il cuoco solleva cinque dita in aria: “Cinque dollari!”. Un camerunese tira fuori una banconota da cento e paga anche per Sandra e Benita. Tutti lo chiamano Pastor. “Mi piace molto parlare di Dio”, spiega ridendo. Quando è partito dal Camerun, dice, Dio gli ha rivelato che il viaggio non sarebbe stato facile e che avrebbe dovuto guidare il suo popolo. Pastor è un uomo muscoloso e negli ultimi due giorni è diventato uno dei leader del gruppo. Ora, dice, bisogna mangiare e riposare.

“Quando potremo riposare davvero?”, vuole sapere Sandra. Nessuno ha una risposta. Chiede una pillola, una qualsiasi, perché le fa male dappertutto. Benita, seduta accanto a lei, sente che la gamba le si sta irrigidendo. Uno dei pachistani le offre dell’olio canforato e un camerunese comincia a spalmarglielo sulla gamba. Quando arriva al ginocchio, Benita urla e scivola giù dal tronco. I suoi compagni la tengono ferma mentre si contorce per il dolore. Ore dopo, quando tutti dormono, una tenda brilla di arancione. Si vede in controluce la sagoma di Pastor inginocchiato a pregare.

Ricordi dolorosi
Fin dall’epoca degli spagnoli, in tanti hanno provato a conquistare il Darién: esploratori, ingegneri, costruttori e avventurieri. Nessuno c’è mai riuscito. A dispetto di una natura selvaggia, le popolazioni indigene vivono nel Darién da millenni. Alla fine del seicento la Scozia andò in rovina tentando di fondare una colonia da queste parti. In seguito l’area attirò l’attenzione dei topografi: l’istmo è largo meno di 180 chilometri e pensavano che fosse il punto più logico dove tagliare un canale per collegare l’Atlantico e il Pacifico. Negli anni il Darién ha continuato a dimostrarsi inospitale. Nel 1854 un gruppo di ingegneri della marina degli Stati Uniti si perse nel tentativo di trovare una via fluviale e sette di loro morirono di fame. Quando negli anni trenta fu costruita la strada Panamericana, l’unico tratto mai completato fu quello attraverso il Darién. Il collegamento mancante di 106 chilometri è diventato famoso come Tapón del Darién.

Negli anni novanta il Darién ha ospitato i guerriglieri delle Farc e un gruppo paramilitare di destra. Trovandosi al confine, è sempre stato un punto di passaggio fondamentale per il traffico di armi e droga, e il suo isolamento e l’assenza dell’autorità statale lo avevano reso un nascondiglio ideale per i gruppi armati. Oltre a combattersi l’un l’altro, questi gruppi punivano chiunque ci si avventurasse senza permesso. Oggi, dopo l’accordo di pace con il governo colombiano, le Farc si sono ritirate dal Darién. I paramilitari hanno smobilitato ufficialmente a metà degli anni duemila, ma molte fazioni si sono riorganizzate. Oggi il gruppo più importante è quello degli Urabeños, che controlla diverse aree del territorio.

Quando sono arrivati in Sudamerica i camerunesi e i pachistani sapevano solo che per raggiungere gli Stati Uniti dovevano attraversare Panamá, e che l’unico modo era passare attraverso il Darién.

I camerunesi appartengono alla minoranza anglofona del loro paese e sono in fuga da una delle campagne di terrore più ignorate dall’opinione pubblica mondiale. Le tensioni tra il governo a guida francofona e i cittadini anglofoni risalgono ai tempi dell’indipendenza (nel 1960), ma hanno raggiunto un nuovo apice nel 2016, quando il governo centrale ha imposto la presenza di insegnanti e avvocati di lingua francese nelle scuole e nei tribunali anglofoni. Le prime proteste pacifiche sono state represse dai militari, scatenando un’insurrezione armata e un’ulteriore giro di vite del governo. Alla fine del 2019, il bilancio del conflitto era di circa tremila morti e 700mila sfollati camerunesi nelle regioni anglofone.

Quasi tutti i camerunesi arrivati all’accampamento dei trafficanti di esseri umani hanno subìto violenze terribili. Sandra stava cenando a casa con la sua famiglia quando i militari hanno sfondato la porta, hanno trascinato fuori il fratello e gli hanno sparato. Dopo che hanno incendiato la casa, lei è scappata nella foresta, dove le forze di sicurezza del governo l’hanno violentata. Da allora non ha più visto la sua famiglia. Anche il fratello di Benita è stato ucciso dalle forze di sicurezza. Quando Benita ha sentito lo sparo era nella stanza accanto. Si è precipitata di là e lo ha trovato disteso sul pavimento, con la testa “sparpagliata”, ricorda. Alcune settimane dopo, le forze di sicurezza sono tornate a casa sua. Questa volta non si è fatta trovare: è scappata, abbandonando i tre figli. Pastor ha vissuto nella foresta per due mesi insieme al figlio di cinque anni dopo che le forze di polizia avevano ucciso i suoi genitori. È stato catturato dai militari mentre cercava qualcosa da mangiare. Alla fine è riuscito a scappare dalla prigione, ma da allora non ha più visto il figlio.

Con l’Europa e gli Stati Uniti che adottano misure restrittive nei confronti dei migranti e dei richiedenti asilo, trovare rifugio all’estero è diventato più difficile. Mentre i pericoli della traversata del Mediterraneo sono ben noti, su internet ci sono pochissime immagini di migranti annegati o uccisi nel Darién. Benita aveva deciso di raggiungere l’Ecuador in aereo, ma non aveva idea di cosa avrebbe fatto una volta arrivata lì. Durante uno scalo all’aeroporto di Istanbul ha incontrato dei camerunesi. Le hanno detto che si stavano organizzando per andare negli Stati Uniti. “Gli ho chiesto: ‘Ma ci andate a piedi?’. Loro mi hanno risposto: ‘Sì’. Al che gli ho detto: ‘Ah, quindi dopo l’Ecuador andate negli Stati Uniti?’. Mi hanno risposto: ‘Sì, a piedi. Attraversiamo il fiume ed entriamo negli Stati Uniti’”.

Quando Benita è arrivata in Ecuador ha incontrato Pastor e Sandra e ha scoperto che molti camerunesi avevano consigli su come raggiungere la costa settentrionale della Colombia: in quali città andare e dove cambiare autobus. Con l’aumentare dei camerunesi in fuga dal loro paese, queste informazioni si stavano diffondendo in tutto il mondo a forza di messaggi scambiati su WhatsApp da profughi dello Sri Lanka, della Repubblica Democratica del Congo, dell’Angola, dell’India, del Bangladesh e dell’Eritrea. Nel 2019 le autorità panamensi hanno contato quasi 24mila migranti, più del triplo di quelli arrivati nel 2017. Più della metà veniva da Haiti, ma il numero dei migranti africani e asiatici è in aumento.

I quattro pachistani si sono incontrati per la prima volta in una stazione degli autobus a Lima, in Perù: Waseem e Hussain arrivavano dal Pakistan, Nihal e Wajid dal Cile, dove avevano lavorato per un anno. Tre di loro sono originari dello Swat, la regione vicino al confine con l’Afghanistan. Hanno vissuto gli anni violenti dei taliban e delle successive offensive militari per sconfiggerli. Ora sperano di trasferirsi in un paese più sicuro.

Waseem è il collegamento tra i quattro; gli altri lo hanno contattato attraverso un giro di amici e parenti. Ha la pelle chiara, la barba ben curata e gli occhi verdi, e sa di essere attraente. All’inizio il Sudamerica e il Darién erano l’ultimo dei suoi pensieri. Quando è partito dal Pakistan ha preso un volo per Dubai sperando di ottenere un visto per l’Europa. Poi ha capito che sarebbe stato molto difficile – quasi nessun
paese europeo accoglie maschi pachistani di 23 anni senza un permesso di lavoro – e ha ripiegato su un paese disposto a concederglielo: il Perù. Quando però è atterrato a Lima, l’ufficio immigrazione lo ha informato che il suo visto non era valido e che lo avrebbero rimandato in Pakistan. Waseem a quel punto è svenuto sul posto e al suo risveglio in ospedale ha detto ai funzionari della sicurezza che preferiva restare in aeroporto piuttosto che tornare a casa. Ventidue giorni dopo, le autorità gli hanno concesso un visto temporaneo. Waseem è andato a vivere a casa della donna peruviana che lo aveva soccorso all’aeroporto e ha cominciato a contattare i suoi amici per organizzare la traversata verso gli Stati Uniti.

Per i migranti diretti a nord che passano in Colombia, la strada termina a Necoclí, una città portuale sulla costa caraibica. Da lì si arriva in traghetto a Capurganá, una sonnolenta cittadina turistica che serve come porta di accesso al Darién. È su una di queste barche che i pachistani e i camerunesi si sono incontrati alla fine dell’estate e hanno cominciato a parlare di quello che li aspettava. Erano sicuri di poter attraversare velocemente il Darién: erano giovani e non avevano bambini al seguito.

Quando i migranti scendono dal traghetto a Capurganá, i giovani del posto li accolgono come operatori turistici: “Amigo, amigo. Panamá, Panamá”. Insieme alle infradito, le maschere con boccaglio e i costumi da bagno i negozi vendono machete e tende da campeggio. Il ritmo è fluido: i turisti entrano, le droghe e i migranti escono. Gli Urabeños, i paramilitari che controllano la regione, tollerano i migranti purché non interferiscano con il traffico di stupefacenti e non attirino l’attenzione delle autorità. È una convivenza difficile, e quando il flusso dei migranti minaccia le loro attività gli Urabeños prendono provvedimenti. Una volta, raccontano gli abitanti del posto, il gruppo ha ucciso un trafficante come avvertimento dopo che altri non avevano rispettato un divieto. È difficile capire fino a che punto si estende la zona d’influenza degli Urabeños a Panamá, ma sicuramente controllano l’ingresso settentrionale nel Darién. Quindi decidono chi entra e chi no, e quanto deve pagare.

Panamá, 24 agosto 2019. Un gruppo di migranti attraversa il fiume Parraganti. (Carlos Villalón)

In genere a Capurganá i migranti pensano ancora di poter raggiungere Panamá in autobus o in barca, e si stupiscono quando scoprono che devono proseguire a piedi. Molti trascinano trolley o borsoni da viaggio stracolmi o indossano giacconi invernali con i cappucci di pelliccia, scarpe di pelle e pantaloni eleganti. I quattro pachistani, però, erano preparati: avevano visto su YouTube alcuni video di migranti che camminavano nel fango con gli stivali di gomma e le mantelle per la pioggia. Negli zaini hanno messo biscotti, frutta secca, noci e latte.

Molti migranti non parlano spagnolo e sono alla mercé dei trafficanti di persone. I camerunesi avevano i riferimenti e la foto di un certo Junior, con cui si erano messi in contatto subito dopo l’atterraggio. Per 50 dollari a testa gli avrebbe procurato delle guide – come preferiscono farsi chiamare qui i trafficanti di esseri umani – che li avrebbero accompagnati nella giungla e poi oltre il confine in un posto noto semplicemente come el río, il fiume. C’era solo un costo supplementare, ha spiegato Junior: una tassa obbligatoria di 20 dollari a persona per cautelarsi contro la “mafia”. Tutti hanno pagato. Junior ha scattato una foto a ogni camerunese e pachistano del gruppo. Una volta completata la transazione, li ha lasciati partire da Capurganá al seguito dei trafficanti. Dopo un po’ il gruppo ha raggiunto un cancello: c’erano degli uomini che li hanno contati a uno a uno e li hanno fatti entrare nella foresta pluviale. Erano ventidue.

Nessuna risposta
La mattina dopo il loro arrivo al campo, i camerunesi e i pachistani si svegliano sotto una pioggia torrenziale. Il vento strappa i teloni dai picchetti, facendoli svolazzare da una parte all’altra. Wajid si alza di soprassalto stringendosi al collo una coperta della compagnia aerea e cerca inutilmente di afferrare gli angoli del telo della cucina. Altri rincorrono le tende. Invece di affidarsi a una nuova guida, il gruppo ha deciso di restare con lo stesso trafficante che li ha accompagnati al campo. Si è dimostrato inaspettatamente premuroso: li ha aiutati a scavalcare le radici degli alberi e anche a portare i bagagli. Per dieci dollari a persona si è offerto di fargli da guida per un altro giorno. Ci sono solo due modi per guadagnare se hai trent’anni e vivi a Capurganá: trasportare droga o trasportare migranti. Lui ha scelto i migranti.

Quando il temporale finisce il gruppo si mette in cammino. Con i loro impermeabili rosa, gialli e blu i migranti sembrano tante caramelle. Alcuni dei trafficanti che aspettano intorno al campo decidono di aggregarsi alla carovana. Sanno che i camerunesi e i pachistani si stancheranno presto e gli ronzano intorno offrendosi di portargli i bagagli in cambio di qualche dollaro. Il sentiero che porta fuori dal campo s’inerpica su una montagna, una salita dietro l’altra. Il gruppo prosegue senza sosta fino a metà pomeriggio, arrancando tra felci e liane su un sentiero che sembra un cunicolo dalle pareti verdi. Il cielo compare in piccole macchie intermittenti tra le chiome degli alberi. Raggiunta una radura, i pachistani aprono una Red Bull mentre aspettano gli altri. Sudata sotto i pantaloni di plastica antipioggia, Sandra li raggiunge. “Non sapevo che avrei dovuto scalare le montagne”, dice.

Benita arriva per ultima, barcollando, sostenuta da Pastor e da un camerunese snello che si chiama Vitalis. Non riesce a piegare il ginocchio, quindi per camminare deve ruotare l’anca. Quando il sentiero è in salita, però, il sistema non funziona: è costretta a piegare il ginocchio, poggiando lo stivale a terra e spingendo con la gamba. È una manovra dolorosissima, che la fa gridare ogni volta. Pastor l’ha spinta da dietro mentre Vitalis l’ha tirata tenendola per mano. Sono andati avanti così per ore.

L’ultima fermata
La discesa è ancora più dura. I migranti scivolano e perdono l’equilibrio, aggrappandosi ai rami o alle liane per frenare la caduta. A un certo punto, vicino alla cima della montagna, Benita comincia a sentire che la gamba le si sta separando dal corpo. Ha l’espressione vacua di chi si sta dissociando dal dolore. Una guida di nome Camilo (non è il suo vero nome) osserva la sua agonia. “Cominciano sempre così”, dice. “La maggior parte di quelli che si fanno male alla fine muoiono”.

Il corpo di un migrante giace ai piedi di un albero in fondo a un burrone. La carne copre ancora parti dello scheletro e intorno al bacino ci sono brandelli di tessuto. Camilo lo ha conosciuto e quando ne parla lo chiama “l’indù”: i trafficanti chiamano così chiunque provenga dall’Asia meridionale. Era arrivato al campo due mesi fa in condizioni terribili, e Camilo gli aveva consigliato di non proseguire. Ma lui qualche giorno dopo aveva deciso di rimettersi in marcia, e a metà della scalata si era dovuto fermare. Aveva un infortunio simile a quello di Benita, dice Camilo. Nelle due settimane successive, i trafficanti e gli altri migranti lo avevano visto trascinarsi e riposarsi lungo il sentiero e gli avevano dato viveri e acqua. Un giorno un trafficante di passaggio lo aveva sentito chiedere aiuto perché era caduto in un terrapieno. Il trafficante, racconta Camilo, non era riuscito a tirarlo fuori e dopo un po’ era tornato con dei rinforzi per riportarlo all’accampamento. Ma quando lo aveva chiamato, non c’era stata nessuna risposta.

Non c’è niente da fare, tranne rimettergli a posto la spalla e dirgli buona fortuna

I quattro pachistani se la cavano un po’ sia con l’inglese sia con lo spagnolo e riescono a comunicare con le guide per capire cosa sta succedendo. Non hanno potuto fermarsi lungo il sentiero per recitare le preghiere pomeridiane, ma al campo hanno fatto le loro abluzioni nel fiume e hanno usato le coperte della compagnia aerea come tappetini. Hanno chiesto a Dio di proteggerli da ogni tipo di pericolo “umano o animale”, dice Waseem.

Raggiunto il fiume ai piedi della montagna, i pachistani riempiono le bottiglie e bevono avidamente. Il posto è bellissimo. Il fiume è molto stretto e il sole del tardo pomeriggio filtra da una fessura in mezzo alle chiome degli alberi e ai rami ricurvi, screziando la superficie. L’acqua scorre dolcemente ed è poco profonda. I pachistani si tolgono i calzini e si sciacquano i piedi. Nessuno ha mangiato niente tutto il giorno e i pachistani e i camerunesi dividono un po’ di cracker e noci. La prima notte i camerunesi hanno gettato via gran parte dei loro viveri lungo la strada. Pastor ammette che è stata una decisione avventata, ma la giornata era stata così dura che pensavano di essere ormai arrivati a destinazione. Come se, rifiutandosi di accettare il tempo necessario per la traversata, sperassero di accorciarla. Hanno buttato via anche ilgarri, un alimento tradizionale a base di radice di manioca macinata che Benita, Vitalis e altri avevano portato con sé e che aveva permesso a molti di loro di sopravvivere quando si nascondevano dalle forze di sicurezza nella foresta.

Per i trafficanti il fiume è l’ultima fermata. Più tempo rimangono in territorio panamense, più le probabilità di essere arrestati dalla polizia di frontiera aumentano. Le conseguenze sarebbero gravi: il traffico di esseri umani è punito con anni di carcere. Quindi dicono al gruppo di seguire il fiume, gli augurano buona fortuna e risalgono la montagna. Dopo un po’, però, i camerunesi si accorgono che qualcuno ha frugato nei loro bagagli. La borsa di Benita è scomparsa; dentro non c’erano soldi, ma ci teneva il rosario e il passaporto. Anche il piccolo zaino dove Pastor custodiva il passaporto è stato rubato. Fortunatamente gli hanno lasciato la Bibbia, i suoi soldi sono nascosti in una tasca sigillata con la colla.

Ora i camerunesi e i pachistani sono da soli. Hanno difficoltà a capire se stanno andando nella direzione giusta. Ci sono dei sentieri, ovviamente, ma è facile girare in circolo per giorni e ritrovarsi al punto di partenza. I segnali più utili sono quelli lasciati dagli altri migranti, di solito pezzi di plastica o di stoffa legati attorno ai rami per indicare la strada. Ogni tanto compaiono ulteriori prove che qualcuno è passato di là: uno zainetto, un paio di scarpe, una scatoletta di sardine vuota. Ma tra gli oggetti abbandonati ci sono anche attrezzature essenziali per la sopravvivenza: tende montate in mezzo ai cespugli o pali piantati tra le rocce nel fiume. A volte i migranti li lasciano perché i trafficanti li ingannano dicendogli che manca meno di un giorno alla meta.

Dopo aver riposato è difficile per tutti raccogliere le energie per andare avanti e mezz’ora dopo il gruppo si ferma in una piccola radura che qualcuno ha già usato per accamparsi. È in una buona posizione, abbastanza in alto rispetto al fiume. Se ci fosse un’alluvione improvvisa l’accampamento non verrebbe spazzato via, come spesso succede. I trafficanti hanno raccontato che a volte, dopo una tempesta, trovano i corpi dei migranti, anche una decina, ancora avvolti nelle tende e sparpagliati tra le rocce sottostanti.

Il gruppo discute se fermarsi o no. Un camerunese di nome George, che zoppica in modo vistoso, è chiaramente per il sì. Anche i pachistani vorrebbero fermarsi, ma sono in minoranza. Come dice uno dei camerunesi, stare senza mangiare non è “rilassante”: il gruppo deve andare avanti finché c’è luce. Un paio d’ore dopo si fermano per la notte, ma all’appello mancano George e il suo amico Mohammed.

La mattina dopo, un altro gruppo di migranti s’imbatte in George che zoppica lungo la riva di un fiume. È alto e muscoloso e ha gli occhi spalancati per la paura. Per colpa di una distorsione alla caviglia, spiega, è rimasto indietro. Mohammed si è fermato con lui ma la mattina è corso via per raggiungere gli altri, portandosi la tenda. George ha cercato di seguirlo saltando su una gamba e appoggiandosi a un bastone, ma è scivolato e si è slogato la spalla.

“Perfino la sua gente lo ha abbandonato”, dice la guida del gruppo, scuotendo la testa. George è troppo grosso per essere portato in braccio, afferma. Non c’è nulla da fare, tranne rimettergli a posto la spalla, dargli qualcosa da mangiare e augurargli buona fortuna. George si rivolge alle guide: non potrebbero tornare a prenderlo di notte, dopo aver scaricato i bagagli? Li pagherebbe bene. No? Allora magari possono prendere le sue cose e portarle al campo, in modo che lui possa recuperarle in un secondo momento, perché è sicuro di farcela, dice.

Le guide accettano e gli fanno riempire un sacco della spazzatura con alcuni oggetti non essenziali, ma George è così sicuro di farcela che ci mette dentro anche i viveri, comprese due scatolette di tonno che gli hanno dato i trafficanti. Quando gli consigliano di tenersi le provviste, George si agita e decide di rimettere tutto nello zaino. Mentre si riprende i documenti e le pillole, comincia a fare una domanda dietro l’altra: “Dove dormirò la notte?”, ripete. “Come faccio?”. Nessuno gli risponde.

La guida gli dà un nuovo bastone con il fusto cavo, dicendogli di metterci dentro i soldi e di tappare l’apertura con il fango. Un altro trafficante di persone gli taglia la maglietta con un machete e gliela lega intorno alla spalla come se fosse un’imbracatura. George si alza camminando su un piede, poi si trascina per scavalcare alcuni grossi sassi. Dopo un po’ comincia a strisciare.

Mohammed ci mette ore per raggiungere il gruppo. La notte scorsa due camerunesi sono tornati indietro per cercare lui e George, gridando i loro nomi al buio. Mohammed, in lacrime, gli racconta cos’è successo: George non può camminare e probabilmente non ce la farà da solo. Nel gruppo non c’è nemmeno bisogno di discuterne. George è un giorno indietro e i viveri scarseggiano. Devono proseguire.

“Non potevamo tornare indietro”, dirà più tardi Vitalis. Come si sentiranno se uno di loro si perderà nella giungla?, si chiede Pastor. Dice a tutti di pregare, devono chiedere perdono per aver abbandonato George, “perché quello che abbiamo fatto è sbagliato”.

Una lunga attesa
A differenza degli altri camerunesi, Sandra ha una meta precisa: un condominio di due piani a Huntsville, in Texas, dove vive Ellerton, il suo fidanzato. Ellerton ha lasciato il Camerun per gli Stati Uniti con un permesso di studio nel 2016, quando Sandra frequentava il secondo anno di giurisprudenza all’università di Bamenda. Aveva partecipato all’organizzazione di manifestazioni e scioperi ed era finito nel mirino della polizia, che lo aveva arrestato varie volte. Una notte lui e Sandra avevano sentito degli spari vicino a casa loro. Erano corsi sul retro e si erano nascosti nell’unico posto possibile: il bagno esterno. Dopo pochi minuti avevano sentito i militari che sparavano verso la casa. La mattina dopo erano scappati e il mese successivo Ellerton era partito per gli Stati Uniti. Sandra era tornata nel villaggio della sua famiglia, dove credeva di essere al sicuro.

Anche Benita è stanca e disperata. Non riesce a togliersi dalla testa quello che ha visto in Camerun. Lo chiama “il mio problema nella mia mente”. L’immagine del fratello steso a terra si riaffaccia in continuazione. L’angoscia di non sapere dov’è la sua famiglia l’assale con tale violenza da farla gridare. Scappare da un bosco all’altro è diventata la sua vita.

Panamá, 20 agosto 2019. L’accampamento dei migranti durante un temporale. (Carlos Villalón)

Il quinto giorno Pastor si sveglia con una rivelazione: sarà l’ultimo giorno di cammino, annuncia. Effettivamente, a mano a mano che il gruppo avanza, il paesaggio cambia. Il fiume si è fuso con altri due e si è allargato, mostrando ampie spiagge di ciottoli. Il cielo improvvisamente si è aperto. Voltando lo sguardo, i migranti vedono le montagne che hanno appena attraversato: è come se il Darién li stesse sputando verso la pianura. Si capisce anche da un altro segno che la destinazione è vicina, il numero dei cadaveri comincia ad aumentare. Alcuni sono ben visibili: una gabbia toracica sulle rocce, un cranio lungo il fiume. A un certo punto alcuni camerunesi notano una tenda in buono stato al lato del sentiero e pensano di prenderla. Ma quando la aprono ci trovano dentro tre corpi e scappano via. I corpi continuano ad accumularsi.

“Ovunque andiamo incontriamo cadaveri”, dice Benita. C’è un corpo in particolare – troncato a metà, senza il busto e la testa – che terrorizza Benita e la fa scappare via, nonostante il ginocchio. Vedendolo si è resa conto di cosa le potrebbe succedere.

Poi c’è una morte che non si vede ma che ostruisce i loro sensi. È l’odore fetido che filtra dalle chiazze di boscaglia. Sono gli avvoltoi che volteggiano e gracchiano sopra le loro teste. Alla vista dei cadaveri sembra quasi che ritrovino le energie. Nessuno ha una torcia, ma il gruppo va avanti anche quando cala la notte. “Stiamo camminando come non ho mai fatto in vita mia”, dice Pastor.

A un certo punto incontrano due uomini a cavallo che, a pagamento, si offrono di accompagnarli fino a un villaggio indigeno chiamato Bajo Chiquito. Uno dei due si mette alla testa del gruppo, mentre l’altro va in coda caricando Benita sul cavallo. I migranti s’incamminano su un sentiero fangoso, poi il trafficante dice che non può più proseguire perché rischia l’arresto. Ma assicura al gruppo che manca solo mezz’ora al punto in cui attraverseranno il fiume per arrivare al villaggio. Più tardi Benita dirà che non si ricorda com’è arrivata al fiume.

L’acqua è poco profonda. Dall’altra parte, in lontananza, si vedono delle luci. “Oh, Dio!”, esclama Sandra. È talmente felice che si toglie gli stivali e prosegue a piedi nudi, attraversando per l’ultima volta il fiume. Mentre il gruppo si avvicina a Bajo Chiquito, il frastuono dei grilli e degli uccelli notturni si placa, sostituito dal ronzio di un generatore e dai latrati dei cani.

La vecchia vita
Il gruppo resta a Bajo Chiquito solo pochi giorni prima di salire a bordo delle canoe a motore dirette a La Peñita, il villaggio che fa da centro di accoglienza e smistamento per i migranti che escono dal Darién. È un posto minuscolo, con una manciata di case di cemento e assi di legno e poco più di cento residenti. Quando arrivano il villaggio ospita già più di quattrocento migranti, quasi tutti sistemati in tende e hangar. Ci sono solo una decina di bagni chimici, ma spesso sono troppo pieni per essere usati.

I migranti si mettono in fila davanti a una roulotte, dove consegnano i passaporti, e si sottopongono alla scansione dell’iride e al rilevamento delle impronte digitali grazie alle attrezzature fornite dagli Stati Uniti. Quindi gli agenti inviano i dati al sistema di registrazione biometrica di Washington. A volte, qualcuno dell’ambasciata statunitense arriva dalla capitale Panamá per un colloquio. Di solito la situazione dei migranti viene esaminata in una o due settimane, quindi aspettano il loro turno prima di salire su un autobus che li porterà in un campo al confine con la Costa Rica. Per chi viene dai paesi che gli Stati Uniti considerano di “particolare interesse” – sospettati di favorire il terrorismo e ospitare terroristi – l’attesa può durare mesi. È la sorte dei pachistani. Insieme ad altri connazionali decidono di prendere in affitto un appartamento di tre stanze. Comprano dei materassi pieghevoli, un ventilatore da terra e un paio di pentole.

Sapeva che era pericoloso, ma voleva dare ai suoi figli un futuro migliore

Wajid non ha nulla in contrario a lasciare le sue informazioni biometriche, ma è frustrato perché i tempi dei controlli sono lunghissimi. “Siamo contenti, ma anche molto delusi”, dice. Hussain è contrariato: “Qual è il reato del popolo pachistano? Perché sta succedendo questo ai musulmani? Non sono un taliban”.

Sandra indossa un paio di jeans neri strappati e una felpa con la stampa in rilievo. È raggiante. Si è fatta prestare un telefono e, chiamando da uno dei pochi punti in cui c’è rete, si è messa in contatto con Ellerton. Alla notizia che è riuscita a passare il Darién lui è scoppiato in lacrime. Ora l’aspetta in Texas, le ha detto. Nel frattempo le manderà dei soldi per il viaggio.

Per sfuggire alla noia e al caldo i camerunesi si sdraiano sui materassi all’ombra del tetto del dormitorio. Un pomeriggio Pastor è seduto con Sandra, Benita e un’altra ragazza del gruppo, Sandrine. Ieri è stato male e ha temuto di essersi preso la malaria, ma le pillole che gli hanno dato contro i parassiti sembrano averlo rianimato. Sta parlando di un video che ha visto sui social network dove un bambino camerunese di circa quattro anni, solo in mezzo alla strada, cerca i genitori dopo un attacco al suo villaggio. Le atrocità che vengono commesse nel suo paese sono al di là di ogni immaginazione. Ecco perché i camerunesi sono sempre così disperati, dice: sono andati via, ma non riescono a lasciarsi alle spalle la loro vecchia vita.

Mentre Pastor parla Benita resta in silenzio, fissando nel vuoto. Spesso sembra distaccata. “La mia anima è da qualche altra parte”, dice un pomeriggio in riva al fiume dove i migranti fanno il bucato e si lavano. A La Peñita si sente persa, come da qualsiasi altra parte. In Camerun, quando si nascondeva nei boschi, i giorni si confondevano l’uno con l’altro. Non ricorda nemmeno quanto tempo ci è rimasta: forse due mesi, forse sei. L’unica cosa di cui è sicura è la data in cui è stato ucciso suo fratello, l’8 dicembre 2018. Poi basta. Il Darién l’ha fatta sprofondare in un altro vuoto temporale. “Da quando ho lasciato il Camerun, non distinguo più i giorni e i mesi”, dice.

Sul prossimo autobus
Un giorno arriva un angolano con la moglie e due bambini piccoli. Si chiama Gedeão. Sapeva che attraversare il Darién era pericoloso, ma voleva dare ai suoi figli un futuro migliore. Il viaggio è durato quattordici giorni ed è stato un incubo. “Ho perso mia figlia”, dice. Stavano attraversando un fiume e la corrente non era particolarmente forte. “Non so cos’è successo”, dice guardandosi le mani da cui è scivolata via la sua bambina di 9 anni. Dopo aver perlustrato il fiume per due giorni, lui e la moglie si sono rassegnati. Alcuni banditi li avevano già derubati di tutto, compresi i viveri e duemila dollari che avevano risparmiato per andare negli Stati Uniti. Quando sono arrivati a Bajo Chiquito non mangiavano da giorni.

Un agente gli chiede se ricorda in che punto la figlia è stata portata via dalla corrente: forse possono ritrovare il corpo. Ma Gedeão non capisce: a cosa servirebbe recuperare i resti della figlia? Cerca di spiegare quella che a molti può sembrare una scelta crudele: per il bene della sua famiglia, ha dovuto trovare un modo per sopravvivere a quello che è successo. In questo viaggio non c’è spazio per il lutto.

Condividendo la loro esperienza con altri migranti, i camerunesi e i pachistani si rendono conto di quanto sono stati fortunati. Un paio di giorni dopo il loro passaggio, dieci uomini del Bangladesh sono stati derubati quattro volte. Senza tende né viveri, sono stati tre giorni senza mangiare prima d’incontrare un altro gruppo di migranti.

Una donna haitiana è stata derubata da un gruppo di banditi che, davanti al suo compagno, l’hanno perquisita infilandole le dita nella vagina per cercare altri soldi. Un altro haitiano è stato ucciso di fronte al suo gruppo. Sandra scopre che due donne sono state stuprate poche ore prima del suo passaggio.

Una delle poche buone notizie riguarda George. A Bajo Chiquito i camerunesi hanno fatto una colletta e hanno pagato due uomini a cavallo per andarlo a cercare. A quanto pare, lo hanno trovato. Ha passato due settimane nella giungla e ora si sta riprendendo a Bajo Chiquito.

Una settimana dopo il loro arrivo a La Peñita, Sandra, Benita e altri camerunesi del gruppo vengono informati che saliranno sul prossimo autobus per la Costa Rica. Pastor invece li raggiungerà più tardi: prima vuole andare nell’ospedale più vicino per fare delle analisi. I pachistani sono venuti a salutarli. In inglese maccheronico li ringraziano per aver attraversato il Darién insieme a loro. Benita li ringrazia a sua volta per averla aiutata. “Siete dei bravi ragazzi”, gli dice, raggiante in viso.

Pastor è curioso di vedere il Pakistan. È bello come tutti dicono? Se porto una donna nera, come la tratteranno? A un certo punto qualcuno cambia argomento e si chiede che aspetto avrebbe un bambino camerunese-pachistano. Sarebbe bianco o nero?

“Nero! Nero è bello”, proclama Sandrine tra le risate generali.

Non importa, dice Hussain a Pastor. Sarai in America. “Sarà un bambino bianco e nero”, grida. Tutti scoppiano a ridere.

“Fratello, ci vediamo in America”, promette Pastor. Stringendo in mano i 40 dollari per il biglietto, Sandra e Benita salgono sull’autobus per la Costa Rica.

(Traduzione di Fabrizio Saulini)

Questo reportage è stato realizzato con il sostegno del Pulitzer Center e adattato dall’originale.

Questo articolo è stato pubblicato il 5 giugno 2020 sul numero 1361 di Internazionale. Era uscito su The California Sunday Magazine con il titolo “When we can really rest?”. Il 12 giugno 2021 ha vinto il premio Pulitzer nella categoria Feature writing.

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