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L’amante russo: una passione (femminile) semplice

C’è un momento di L’amante russo, il film che la regista libanese Danielle Arbid ha tratto dal romanzo del 1992 di Annie Ernaux, Passione semplice (nei cinema il 17 giugno), in cui Hélène, la protagonista, interpretata da Laetitia Dosch, durante un viaggio in treno osserva le persone intorno a lei. Dall’intensità del suo sguardo traspare la pena per sé stessa (il dolore che prova è per la mancanza dell’uomo senza il quale non riesce a vivere. E l’uomo è Sergei Polunin) e l’incredulità di fronte alla condizione di tutti gli altri, uomini e donne lontanissimi dal provare quello che sente lei.

Laetitia Dosch in L’amante russo.

«Ero entrata in uno stato in cui nemmeno la realtà della sua voce poteva rendermi felice. Tutto era mancanza senza fine, tranne il momento in cui stavamo insieme a fare sesso. Eppure, ero ossessionata dal momento che sarebbe seguito, quando se ne sarebbe andato. Vivevo il piacere come un dolore futuro» scriveva Ernaux. Non è facile mostrare la mancanza. Ma Arbid, grazie anche all’interpretazione di Laetitia Dosch, trasferisce sullo schermo quel dolore, quei languori, fino al crollo.

Espellere la dipendenza

«Da settembre dello scorso anno non ho fatto altro che aspettare un uomo: che mi telefonasse, che venisse a casa mia. Lavoravo, andavo al cinema, al supermercato, leggevo, ma tutto ciò che facevo era come sconnesso dalla realtà» confida la protagonista al medico cui chiede un certificato che la esoneri dal lavoro e una prescrizione per pillole che la aiutino a dormire e, forse, a espellere dall’organismo quella dipendenza.

Laetitia Dosch.

Hélène e Alexandre (Sergei Polunin) si sono conosciuti per caso. Non hanno niente in comune: lui è più giovane di lei, molto bello, molto sexy, molto tatuato e misterioso. Lavora all’ambasciata russa, è sposato, ritiene normale telefonarle per dire semplicemente «On se voit?», e non rispondere mai ai messaggi di lei. Hélène è certa di avere il controllo, non le importa che lui arrivi e scompaia, finché una scena di Hiroshima mon amour («Mi bacerà e io sarò perduta») visto al cinema con un’amica, apre nella sua coscienza uno scenario nuovo.

Laetitia Dosch e Sergei Polunin.

Selezionato da Cannes 2020, il festival che non c’è stato, il film di Arbid ha avuto la sua prima mondiale al festival di San Sebastián e, dopo un passaggio ai Rendez-vous del cinema francese di Roma, esce ora in sala. Insieme a La cordigliera dei sogni di Patricio Guzmán, L’amante russo è una delle scelte migliori che chi vuole andare al cinema può fare in questo momento. E non solo per l’intelligenza con cui la regista mette in scena il limite (e non è un caso che a spingersi fino all’annullamento di sé sia una donna borghese e un’intellettuale che tiene lezioni su Baudelaire e Aphra Behn, la prima scrittrice davvero indipendente, la prima a vivere del proprio lavoro di scrittrice), ma anche per l’uso che fa dei corpi degli attori.

Il corpo di Polunin

Mosca, dicembre 2019: Sergei Polunin in Cappuccetto Rosso, choreografato da Ross Freddie-Ray. Mikhail Tereshchenko/TASS (Photo by Mikhail TereshchenkoTASS via Getty Images)

Alexandre, l’icona Polunin, il corpo statuario del ballerino ucraino, è – nelle mani di Arbid – vero uomo oggetto. I suoi attributi esibiti nelle molte scene di sesso, ma non solo (mentre Hélène indossa la lingerie di pizzo il cui celebre marchio è citato tra i titoli di coda), il suo autoritarismo destinato all’insuccesso quando pretende che l’amante non indossi una gonna «da puttana» per uscire. Forse non è così vero che «I francesi hanno paura dei russi» come dice. Le francesi, per lo meno, sono disposte a desiderarli terribilmente (e se ne capisce la ragione: così diverso Alexandre dall’ex marito di Hélène, l’incappottato e benpensante Grégoire Colin in un cameo), ma solo perché incarnano il loro stesso desiderio. E quando Alexandre ritorna, dopo essersi eclissato per il tempo necessario a lasciarlo sfiorire, dopo essere passata attraverso tutte le tappe della via crucis, smarrimento, ossessione, annullamento, allora – e con un extra di dolore – Hélène può concludere che quell’uomo da cui dipendeva la sua stessa vita «non è più la stessa persona».

iO Donna ©RIPRODUZIONE RISERVATA