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Daniel Lumera e Immaculata De Vivo: «La leadership è femminile, e gentile»

«Quando sono stata vaccinata (prestissimo, a gennaio, essendo medico), tutti mi dicevano: fortunata, puoi fare quello che vuoi! E invece non potevo fare niente, perché nessun altro negli Stati Uniti lo era… La pandemia ci ha dimostrato – se ancora ci fossero stati dubbi – che il benessere deve essere collettivo». Immaculata De Vivo – scienziata con doppia cattedra ad Harvard, leader internazionale nel settore dell’epidemiologia molecolare e della genetica del cancro – ha deciso così di ampliare con Daniel Lumera, sociobiologo e maestro di meditazione, le riflessioni iniziate nel 2020 nel loro Biologia della gentilezza: ne è nato La lezione della farfalla (sempre Mondadori).

Focalizzarsi sul “noi”

«Nel primo libro eravamo focalizzati sul “me”, sulle varie strategie da adottare per rafforzare il sistema immunitario, prevenire l’insorgenza di patologie e l’invecchiamento precoce: non solo alimentazione sana e attività fisica, ma anche – come è stato ormai dimostrato dati alla mano – contatto con la natura, meditazione, altruismo, gentilezza, ascolto della musica. L’emergenza planetaria ci ha imposto di ampliare lo sguardo passando dall’Io al Noi: la salute del singolo è legata alla salute di tutti» spiega via Zoom dal Massachusetts la professoressa, che a sei anni ha lasciato con la famiglia Sarno, vicino a Salerno, per New York (« Niente valigie con lo spago, eh» scherza, «ma il senso di essere “diversa”, di essere un’aliena mi ha accompagnato. E sensibilizzato»).

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Crisalide e lockdown

Perché il titolo, che lezione ci dà la farfalla?
«Siamo in un periodo di trasformazione epocale – sociale, economica, sanitaria, climatica, ecologica – e la farfalla è l’essere che meglio ci può insegnare come stare nel flusso del cambiamento. Abbiamo paragonato la fase-crisalide al lockdown, ora è tempo di uscire dal bozzolo e prendere l’esempio da chi basa l’esistenza sull’interconnessione e sull’interdipendenza: quando si ciba favorisce l’impollinazione, il suo prendere è un dare, in realtà» chiarisce Daniel Lumera, ancora sorpreso degli effetti (concreti) del libro precedente: 200mila persone hanno aderito al movimento Italia Gentile, oltre 40 comuni hanno sottoscritto il Manifesto della gentilezza (impegnandosi per progetti su ambiente, sostenibilità, educazione e giustizia in scuole, ospedali e carceri), a breve partiranno il Festival dell’Italia Gentile (Firenze, 2-4 luglio) e il Festival gentile (San Marino, 6-8 agosto).

Daniel Lumera

La gentilezza e le forze inclusive

«È l’inizio di un’era tutta femminile, nel senso che le qualità archetipicamente attribuite alle donne (oltre alla gentilezza, l’empatia, la compassione, la gratitudine, l’altruismo e la capacità di perdono), forze inclusive che una volta erano reputate debolezze, sono invece le chiavi del successo del tempo che verrà» continua Lumera, autore di altri tre bestseller: La cura del perdono e, con il medico esperto di alimentazione Franco Berrino, Ventuno giorni per rinascere e La via della leggerezza.

«Da maschilisti, da membri di una società patriarcale, abbiamo a lungo interpretato la teoria dell’evoluzione di Darwin così: sopravvive il più forte, quello che sa prevalere fisicamente. No, sopravvive il più adatto al cambiamento, visto che l’unica costante dell’esistenza è proprio il cambiamento. E, per fortuna, ora la scienza ce lo prova».

Immaculata De Vivo.

No alle quote rosa

Quindi, porte – finalmente – aperte alle donne…
«Purché non tentino di compensare la discriminazione subìta, la sensazione di ingiustizia e di impotenza facendosi muovere dalla rabbia e non dalla volontà di esprimere ciò che sono, puntando sulla capacità di accoglienza, gestazione, sulla fondamentale fiducia nella vita. Troppe sono arrabbiate e usano un modello maschile per imporsi, mentre si può essere autorevoli senza essere autoritari, decisi e fermi pur ascoltando il cuore, mettendo il benessere dell’altro fra le priorità e traendone un vantaggio, come dimostrano gli studi del neuroscienziato Richard Davidson».

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E le quote rosa? «Nel 2016, nella campagna presidenziale Hillary Clinton contro Donald Trump, ho visto due uomini confrontarsi. Il problema non è quante donne devono salire al potere, è quali. Non è questione di numeri, è questione di consapevolezza».

«Concordo: ho lavorato con moltissime donne che non sono gentili…» ride la professoressa De Vivo, che del suo patrimonio cromosomico italiano – in tanti anni di America – non ha perso la solarità e l’ironia. Ha perso, invece, quella sindrome da controllo tipica di tante in ruoli di responsabilità: «Io non ho insicurezze per cui non devo vigilare su tutto…».

Costi biologici

Non si è mai sentita ostacolata in un ambiente ancora oggi maschile come quello dei genetisti?
«Non ho avuto esperienze brutte con i colleghi, però devo premettere che, per natura, non vedo la cattiveria e, se magari forse c’è, non la guardo. È una caratteristica dell’ottimista: non significa che sei sempre felice, significa che – se oggi è una brutta giornata – ti ripeti convinto: domani sarà meglio. Prendiamo questa pandemia: finirà, tutte le pandemia della Storia sono finite. Credo anche io, come Daniel, che parecchie siano arrabbiate, ma mi concentro sui progressi che sono stati fatti. Nel 1958 il ruolo della newyorchese Esther Lederberg in una scoperta fondamentale per lo studio dei batteri non venne riconosciuto e l’Accademia di Svezia assegnò il Nobel solo al marito; negli stessi anni, nel Regno Unito, rimase nell’ombra l’apporto di Rosalind Franklin a un’altra scoperta da Nobel della medicina. Adesso difficilmente potrebbe succedere, per quanto il gender gap continui a essere elevato: al 68 per cento, secondo le stime del Global Gender Gap Report 2020 del World Economic Forum, che vede in testa la virtuosa Islanda, fanalino di coda lo Yemen e l’Italia al 76° posto su 153».

E non è esclusivamente questione di giustizia, è questione di salute: le disparità sociali hanno costi biologici, in proporzioni che variano a seconda della latitudine e del contesto culturale, come la professoressa De Vivo nel libro argomenta in dettaglio citando numerose ricerche scientifiche internazionali. E neppure la salute pubblica è questione (solo) di giustizia, bensì di convenienza collettiva: se ci sono persone malate, non sono produttive e la società se ne deve prendere cura. «Cito il caso dei vaccini: gli Stati Uniti hanno comprato una quantità di dosi quattro volte superiore a quella che potremo mai usare, mentre i Paesi poveri ne hanno zero. Non è un problema morale,è economia: se il primo mondo non aiuta il terzo mondo, saremo tutti colpiti, avremo problemi nella catena di approvvigionamenti e a cosa servirà il denaro se non ci saranno beni disponibili da comprare?».

Abitudini nocive

Anche il percorso della scienziata è frutto di un “effetto farfalla”, di un cambiamento. «Il mio lavoro era la tradizionale ricerca sul cancro, ma nel 2008-2009 ho iniziato a collaborare con psichiatri, psicologi, antropologi che mi hanno detto: “Imma, abbiamo un problema: convincere le persone che lo stress, le avversità e le abitudini nocive impattano la salute. Lo sappiamo, ma non abbiamo le prove. Vuoi occuparti di questo?”. Oggi abbiamo le evidenze necessarie per affermare che il nostro stile di vita conta più della genetica nel determinare lo stato di salute».

Oggetto dei suoi studi, quelle molecole del nostro organismo chiamate “biomarcatori”: fra tutte, spiccano i telomeri. «Le strutture di Dna poste alle estremità dei cromosomi con la funzione di proteggerli: si accorciano con l’età, ma sono influenzati da fattori ambientali e stili di vita. Quindi i geni non sono qualcosa di immutabile: rispondono alle sollecitazioni».

Che fare, dunque? «La cosa buffa è che, con i miei studi, ho provato quello cui era già arrivata mia mamma con il buonsenso: “Lo stress ti invecchia” diceva. Purtroppo non ogni fattore di stress può essere eliminato, la chiave diventa: come rispondi allo stress? C’è una combinazione di strategie pratiche da mettere in atto. Dormire, innanzitutto: il cervello non è fatto solo per pensare, devi riposare perché aiuta pure a metabolizzare il cibo, per esempio. Stare nella natura. Mangiare bene. Fare esercizio. Superare l’egoismo e dedicarsi a qualche forma di volontariato perché ti dà uno scopo, oltre a farti sentire meglio. Essere grati. Perdonare: se porti rancore a qualcuno, continui a dargli il potere di farti male. Meditare, io amo praticare la loving kindness (quel tipo di meditazione finalizzata a suscitare un sentimento di vicinanza a tutti gli esseri viventi, ndr) ».

No al pilota automatico

Al contrario, l’abitudine più dannosa?
«Mettere il pilota automatico» osserva Lumera, che ha un’esperienza quasi trentennale di meditazione. «Mangiare senza consapevolezza, controllare compulsivamente le mail…». Abitudini da seguire E abitudini da inserire? «Un “detox digitale” di almeno un giorno a settimana. Se Gandhi, che era a capo dell’India, poteva stare un giorno in silenzio, noi potremo stare 24 ore alla larga dalla tecnologia, no? Evitare le relazioni tossiche almeno finché non si hanno gli strumenti psicologici per “processarle”. E la meditazione, ovvio. Quando mi chiedono: per quanto devo meditare? Per quanto tempo fai la doccia? Curiamo tanto l’igiene fisica, ma quella mentale è altrettanto importante. Il miglior investimento che possiamo per la qualità della nostra vita. Lo affermavano le saggezze antiche, oggi lo conferma la scienza».

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