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Juliette Binoche: «Mai sognato il matrimonio»

«Quando avevo 18 anni mia madre, che viveva in campagna, racimolò i soldi per farmi andare un anno a scuola di recitazione. Ma non aveva null’altro per pagarmi l’affitto o il vitto e mi sono resa conto che mi sarei dovuta rimboccare le maniche per diventare attrice. Non sapevo come fare, poi grazie a Dio mi sono innamorata di un italiano che viveva a Parigi, mi sono trasferita da lui. Se non l’avessi incontrato forse il mio sogno non si sarebbe mai avverato».

L’ammissione di Juliette Binoche –  che inaugurerà la Quinzaine des Réalisateurs al Festival di Cannes 2021 con Ouistreham, diretto da Emmanuel Carrère – suona un po’ strana per un’attrice che ha sempre rivendicato la propria indipendenza, ha avuto due figli (Hannah e Raphaël, rispettivamente dal collega Benoît Magimel e dal sommozzatore Andre Hallé) e non si è mai sposata: «Sono il padre di famiglia e non ho mai trovato moglie» aveva dichiarato scherzosamente tempo fa.

Storia di famiglia

Incontriamo la 57enne star francese (che dimostra almeno 10 anni di meno) per parlare di La brava moglie, in uscita il 24 giugno al cinema, dove impersona Paulette van der Beck, direttrice di un collegio femminile nell’Alsazia del 1967 in cui si insegna alle ragazze come servire e riverire i mariti: con abnegazione, comprensione e buonumore, adempiendo ai doveri coniugali per garantire la buona salute fisica e morale della famiglia.

Quando il marito muore, lasciando un disastro finanziario che rischia di far chiudere la scuola, Paulette viene avvicinata da un banchiere (Edouard Baer), che è anche un suo vecchio spasimante. Comincia così a risvegliarsi in lei un certo spirito di ribellione a quella posizione sottomessa in cui ha sempre creduto, complice l’eco del ’68 che arriva in campagna attraverso i resoconti radiofonici da Parigi e contagia anche le ragazze.

«Quando ho fatto ricerche per il ruolo, guardando un documentario sull’argomento, sono rimasta sorpresa del fatto che negli anni ’60 ci fossero in Francia un migliaio di queste scuole per educare giovani donne a sottomettersi al marito» racconta l’attrice nella suite di un hotel parigino. «A dire il vero, però, questa storia la conoscevo già: faceva parte della mia famiglia».

Juliette Binoche in “La brava moglie”.

«Amo sfornare torte»

In che senso?
Mia nonna materna, che era polacca e aveva origini modeste, frequentò una di quelle scuole perché non era allo stesso livello del futuro marito, un industriale francese. Dopo la guerra divorziarono e mio nonno non le lasciò nulla: si mise a fare la sarta e poi la cuoca per mantenere i due figli. Questo ha segnato mia madre, e anche me.

Come?
Mia madre si è sposata solo dopo avere avuto mia sorella Marion, a 21 anni, ma aveva sempre messo in discussione il ruolo di moglie imposto dalla società: alla sua epoca ancora doveva chiedere il permesso a mio padre per firmare un assegno. Era un’intellettuale e voleva una scrivania per dedicarsi alla scrittura, ma mio padre si opponeva all’idea. Quando divorziarono, insegnò a me e mia sorella che la cosa più importante nella vita non era sposarsi, ma trovarsi un lavoro e conquistare l’indipendenza economica. Amavo dipingere e sfornare torte, così intravedeva per me un futuro pragmatico da insegnante d’arte o pasticcera. Mi piace ancora fare le torte, ma non ho mai tempo.

All’epoca in cui si sposò sua madre, il matrimonio era un modo per una donna di trovare una posizione sociale che in seguito è stato sostituito dalla carriera?
Assolutamente sì, perché quella in fondo era una carriera dedicata ai figli, alla casa e al marito. Alcune ci credono ancora e non le biasimo, però in caso di divorzio rimangono senza sostegno, soprattutto se hanno sacrificato gli studi in nome della costruzione di una famiglia. Grazie alle battaglie del ’68 oggi le donne hanno più diritti di ieri, ma alla fine spesso devono sopravvivere a una separazione con pochissimi soldi.

Juliette Binoche in “La brava moglie”.

«Ricordo il ’68»

Che ricordi ha del 1968?
Ero piccola, avevo quattro anni, ma mi ritornano in mente molte immagini di allora. Parigi era diventata un luogo pericoloso e, siccome i miei litigavano sempre, ci misero in collegio. Dopo il divorzio mia madre si iscrisse alla Sorbona ed ebbe una svolta femminista: ricordo che, quando avevo sette anni, andavo con lei a dibattiti sulle donne. Ho capito presto cosa significava una società dominata dai maschi.

Cosa pensa delle donne che ancora oggi si sentono valorizzate in una relazione subordinata rispetto ai mariti? Crede che la società non faccia abbastanza per convincerle a rivendicare i propri diritti?
È compito delle donne destarsi da questa condizione, perché può essere anche comodo non fare rivendicazioni se non sai esattamente cosa vuoi fare della tua vita. Per raggiungere l’indipendenza devi desiderarlo e assumerti dei rischi. Le persone equiparano tutto questo all’idea di fare sacrifici, ma se scegli una strada dovresti farlo con gioia. Dobbiamo disfarci di questo cliché che lega l’immagine delle donne al sacrificio. Apparentemente Paulette non vive il proprio ruolo di brava moglie come tale.

Juliette Binoche in “Ouistreham” (foto Christine Tamalet).

Domande sulla vita

Come ha interpretato questo personaggio?
Paulette ha affrontato dei traumi: i genitori sono morti durante la guerra e ha rinunciato al suo grande amore. Perciò ha deciso di recitare un ruolo in modo da non dover affrontare il proprio dolore. Tutti lo facciamo per proteggere la parte più fragile di noi stessi. Il regista, Martin Provost, mi ha detto che sapeva alla perfezione come dovevo incarnarla: mi ha chiesto di ispirarmi alla protagonista di Il filo nascosto (il film di Paul Thomas Anderson con Daniel Day-Lewis e Vicky Krieps, ndr) e di mettere in scena una donna austera, dura, vestita di nero, perché la vedeva solo come una precettrice. Io invece la vedevo in modo diametralmente opposto: è lei la moglie perfetta del titolo e così ho pensato a un confetto, proponendo di vestirla di rosa. Ho studiato gli abiti di una famosa rivista francese per le borghesi dell’epoca e così abbiamo creato il suo guardaroba.

Provost è noto per aver realizzato alcuni ritratti femminili molto veri, come in Séraphine e Violette. Pensa che capisca le donne più di altri suoi colleghi?
Tutti lavoriamo bilanciando il nostro lato femminile e quello maschile: di sicuro Martin ha un lato femminile molto sviluppato. Capisce le donne, le ama e gli piace filmarle. Non so se un altro suo collega avrebbe fatto meglio o peggio, i film nascono sempre dall’incontro di un regista con i suoi attori, dall’incrocio delle loro sensibilità. Di sicuro Martin voleva fare una pellicola divertente e penso ci sia riuscito.

Con tutti i ruoli che ha interpretato, c’è qualcosa che ha imparato?
Quello che ho imparato è farmi domande sulla vita, sugli esseri umani e sulle cose in generale. Sapendo che non sempre si trovano le risposte…

iO Donna ©RIPRODUZIONE RISERVATA