Basta razzismo, sì allo ius scholae

Ragazzi suicidi, discriminazioni, insulti: ma il razzismo in Italia si può fermare per l’attivista Gabriella Nobile. Partiamo da una nuova legge sulla cittadinanza
Basta razzismo sì allo ius scholae

Questo articolo è pubblicato sul numero 25 di Vanity Fair in edicola fino al 22 giugno 2021

«Mia figlia Amélie, che ha 10 anni, mi ha detto: mamma, prima volevo fare l’attrice, ma credo che farò l’architetto. Le ho chiesto il perché. Ha risposto: alle nere fanno fare solo le badanti, io invece vorrei fare la maestra, l’avvocato ma anche una mamma con la sua famiglia». Gabriella Nobile, fondatrice di Mamme per la pelle, associazione no profit che raduna madri adottive, biologiche o affidatarie per tutelarne i figli vittime di discriminazioni per la loro origine, i racconta questo episodio quando le chiedo se in famiglia conoscono Daniela Scattolin di Zero, su Netflix. Lei e suo marito anni fa hanno adottato Fabien, 15 anni, nato in Congo, e Amélie, appunto, nata in Etiopia.

**Quel tipo di serie tv fanno bene? **

«Sono fondamentali: i nostri ragazzi si riconoscono e finalmente sono rappresentati, esistono, perché alla tv non ci sono più solo bianchi. Possono acquisire sicurezza, e aspirare ad altri lavori da quelli stereotipati. Diciamoci la verità: un americano può sognare di fare il presidente, un italiano il buttafuori da Zara o il calciatore».

**Nel mondo, nel 2020, la parola razzismo è stata associata a George Floyd e alla lotta del movimento Black Lives Matter. In Italia a che punto siamo? **

«È facile solidarizzare con l’antirazzismo negli Stati Uniti, perché sono lontani. Ci sono delle differenze, oggettivamente, perché la nostra polizia è sicuramente impreparata ma non così violenta come quella americana. Però in Italia non è ancora ammissibile che un nero sia un avvocato, negli Usa è un tema superato da almeno un secolo, loro hanno fatto pace con la Secessione, noi non rusciamo a parlare del nostro passato coloniale in Etiopia e Eritrea, anche se sarebbe utile farlo. Da noi vive lo stereotipo “italiani brava gente”, anche se abbiamo colonizzato e razziato quelle terre. Da lì potrebbe iniziare il nostro percorso di destrutturazione del razzismo. Che va dalla repressione di tutte le violenze alla formazione: quanti in Italia pensano che l’Africa sia un Paese unico e che si parli “l’africano”?».

I suoi figli sono adottati e hanno un cognome italiano: anche loro subiscono discriminazioni?

«Loro, o il figlio di due immigrati, o i figli di una coppia mista, quando escono per strada sono uguali: i maschi sono una minaccia, e vengono puntualmente fermati dalla polizia. Mio figlio, quando hanno riaperto dopo il lockdown, è stato fermato tre volte di fila da poliziotti che per prima cosa gli chiedevano il permesso di soggiorno. Le femmine invece sono prede, per cui se sono nere vengono insultate o approcciate con volgarità».

Il 50% di chi sbarca non ha la pelle nera e la maggior parte non vuole restare in italia. E la realtà dei nostri ragazzi, un milione e mezzo di persone che già vivono e studiano nel nostro Paese, non c’entra con i barconi

**Nel saggio L’unica persona nera nella stanza (66thand2nd), la giornalista di origini srilankesi Nadeesha Uyangoda ha raccontato come lei, fidanzata con un bianco, venisse spesso fermata perché scambiata per una prostituta. **

«Esattamente. Per strada, nelle nostre città, se non sei bianco sei comunque esposto al razzismo e al pregiudizio».

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Come se ne esce?

«Noi di Mamme per la pelle ci stiamo muovendo su due fronti: un progetto di formazione che è a buon punto, di cui non posso ancora anticipare nulla, perché coinvolge le istituzioni, e una proposta di legge che abbiamo proposto al Partito Democratico, lo Ius Scholae».

Di che si tratta?

«Lo Ius Scholae propone la cittadinanza al conseguimento della licenza media per tutti i bambini stranieri nati in Italia o arrivati dopo. Grazie alla scuola, in pratica, smetti di essere un cittadino di serie B. L’elemento rivoluzionario della proposta è che è la scuola che apre le porte alla cittadinanza: stiamo parlando di bambini, stiamo dando loro l’opportunità di far parte della comunità in cui vivono da sempre».

Chi arriva dopo?

«Segue l’iter normale: al raggiungimento dei 18 anni di età, se ha avuto la residenza continuativamente in Italia, può fare richiesta. La nostra proposta è diversa dalle precedenti, perché si basa su un principio di equità e pari opportunità dei bambini rispetto ai loro compagni di banco».

Perché è diversa dallo Ius Soli e dallo Ius Culturae, già proposti in passato?

«Lo Ius Culturae è naufragato sul numero di cicli scolastici da conseguire per accedere alla cittadinanza. Lo Ius Soli, ossia il diritto alla cittadinanza per il fatto di essere nati in territorio italiano, è stato spiegato male anche dalla Sinistra, che lo sosteneva, e poi è stato strumentalizzato dalla Destra. Dicevano: adesso tutte le donne straniere verranno in Italia a partorire per fare avere la cittadinanza ai figli, una cosa assurda, perché comunque si parlava dei figli di cittadini stranieri che avevano la residenza in Italia da almeno 10 anni, regolari».

Com’è la vita di un ragazzo che vive in Italia ma non ha la cittadinanza?

«È problema grave, si sentono diversi e la legge glielo sottolinea tutte le volte che competono nello sport, se devono partecipare a concorsi, accedere a borse di studio, fare un banale viaggio all’estero. Spesso conoscono anche il dialetto del loro territorio e non la lingua dei genitori, tuttavia sono discriminati rispetto ai coetanei».

Come per il ddl Zan, quando il segretario del Pd Enrico Letta ha aperto a una legge sulla cittadinanza, Giorgia Meloni ha replicato che si tratta di temi secondari adesso, rispetto a quelli della ripresa economica e sanitari.

«C’è sempre una scusa. Nel 2017, secondo l’allora ministro degli Esteri Angelino Alfano, sarebbe stato un errore votare lo Ius Soli perché, testualmente: “Sarebbe un favore alla Lega”. Oggi tutto si ripete. La Meloni si dice sconcertata? Ma lo sconcerto è il nostro: dare la cittadinanza italiana a chi nasce in Italia da genitori stranieri, a chi in Italia impara a parlare, a camminare e a vivere, a chi in Italia studia e si forma, è un atto di civiltà dovuto e siamo già in estremo ritardo. È un atto di civiltà dovuto che aggiunge diritti a tutti e non ne toglie a nessuno. È un atto di civiltà dovuto che crea comunità e senso di appartenenza e di questo, il nostro Paese, ha estremo bisogno. Ed è ora di dire chiaramente che i diritti civili non sono in nessun caso alternativi ai diritti sociali. Quando ci dicono: “L’Italia è in ginocchio, tutto crolla e voi pensate a dare la cittadinanza ai figli degli immigrati” ci stanno prendendo in giro, perché i governi si devono occupare di tasse e di lavoro, si devono occupare dei viadotti che crollano e di vaccini, ma questo non può essere un alibi per smettere di occuparsi di tutto il resto. La legge di cittadinanza sarebbe il primo passo per accettare la nostra società multietnica. Invece di pensare che se sei nero non sei italiano, bisogna iniziare a dire che l’italiano non è più solo bianco».

Questo di solito ci viene in mente quando leggiamo le notizie dell’olimpionica Danielle Madam, che ottiene la cittadinanza dopo molte difficoltà, oppure del tiktoker italiano di origine senegalesi Khabane Lame, tra i dieci più seguiti al mondo (66 milioni di follower su TikTok più 18,7 milioni su Instagram), che viene invitato in Usa ma non ha il passaporto italiano.

«E ancora una volta siamo di fronte a un fraintendimento: la cittadinanza non è un premio che va dato “perché sei stato bravo” e solo ai casi eclatanti, al famoso tiktoker o all’atleta, o ai ragazzini che sventano un attacco terroristico, ma anche all’infermiere, allo scrittore, allo studente, alla persona qualunque. Sennò siamo ancora colonialisti».

Eclatanti sono stati i casi dell’avvocato Hilarry Sedu, che a Napoli si è sentito chiedere da un giudice se fosse davvero un avvocato e con una laurea, o Anas Toutari, il medico neolaureato di Verona che, catapultato in ospedale per combattere il Covid, si sente fare i complimenti per come parla l’italiano.

«È il razzismo inconsapevole, quello che è nel nostro Dna e che è più difficile da sradicare. Succede se mio figlio entra sull’autobus e le signore si stringono le borse. Oppure quando io, all’inizio, pensavo che perché era nero doveva essere più educato, più bravo a scuola degli altri».

Ne è uscita?

«Direi di sì: Fabien ha 15 anni e si veste come uno scappato di casa, mi ha appena convinto a fargli fare i buchi alle orecchie, perché tutti i suoi amici lo fanno».

Dall’altra parte ci sono i migranti che arrivano dall’Africa, e si associa sempre la persona non bianca con i disperati. Come si può cambiare la mentalità delle persone, bombardate da questa narrazione?

«Contronarrando la pelle scura, quindi raccontando prima di tutto chi sono i migranti: il 50% di chi sbarca non ha la pelle nera e la maggior parte non vuole restare in italia. E, secondo, che la realtà dei nostri ragazzi, un milione e mezzo di persone che già vivono e studiano nel nostro Paese, non c’entra con i barconi».

Non si rischia di fare un ulteriore razzismo così?

«No, perché sono entrambi problemi reali ma che vanno divisi e affrontati in modi diversi. Il tema dei migranti va risolto con l’Europa, con i corridoi umanitari. Io stessa adesso faccio parte di Rescue, con Cecilia Strada stiamo comprando una nave per salvare esseri umani. Mio figlio e un migrante sono situazioni che non si toccano, si toccano solo quando si usa il migrante per alimentare il razzismo che poi peggiorerà la vita di mio figlio e degli altri che vivono qui».

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