Due libri al prezzo di uno. “Il tempo degli economisti. Falsi profeti, libero mercato e disgregazione della società” (Hoepli), scritto dal giornalista economico americano Binyamin Appelbaum, reca in copertina la dicitura “Edizione italiana a cura di”, ben giustificata dal fatto che Federico Rampini con la prefazione non si è limitato a presentare l’argomento, ma ha anche scritto un saggio che ha pregio di suo per contenuto e incisività. Se proprio avete fretta, potete anche leggere solo questo, fra i “due” libri; ma li consigliamo entrambi.
Sotto i colpi della realtà, si sta sgretolando il “pensiero unico” in economia, che dall’epoca di Margaret Thatcher ha monopolizzato la scena in Occidente: un mix di deregolamentazione finanziaria, tagli alle spese sociali e sanitarie e compressione dei redditi e dei diritti dei lavoratori, negli Stati Uniti e nel Regno Unito, a cui nell’Eurozona si è associata una lotta paranoica all’inflazione (su impulso tedesco). Intendiamoci, ognuna di queste tendenze aveva la sua quota di giustificazione, in varia misura, per reagire ai problemi e alla sclerosi dei sistemi economici e sociali dell’Occidente negli anni ’70; ma si è andati troppo oltre, e di gran lunga, e le ricette pragmatiche sono degenerate in ideologia cieca e sorda alla realtà.
Per colpa di chi? Colpa dei politici (di destra e di sinistra) che detenevano il potere e di volta in volta si sono presi la responsabilità di decisioni fatali; ma colpa anche degli economisti che li hanno ispirati. Per citare Rampini, “quasi nessuno di loro seppe prevedere lo schianto sistemico del 2008/2009. Peggio: i più autorevoli economisti del tempo avevano ispirato decisioni – delle banche centrali, delle autorità di vigilanza sui mercati, dei governi – che provocarono quel disastro della finanza. Non vi è traccia di un’autocritica di massa per la responsabilità di quegli eventi. Né di un ravvedimento. Dopo di allora, la maggioranza degli economisti ha ancora sbagliato sistematicamente le previsioni sulle conseguenze di grandi eventi mondiali come la Brexit, la politica economica dell’Amministrazione Trump, la guerra commerciale Usa-Cina”.
Sul piano politico, il libro di Appelbaum incolpa la destra ma anche la sinistra di Clinton, Obama, Blair e persino di socialisti francesi come Delors e Camdessus; e per quanto riguarda gli economisti, Appelbaum li condanna in blocco, sostenendo che la distinzione accademica fra i “cattivi” della scuola di Chicago e i presunti “buoni” di sinistra o keynesiani sia molto meno netta di quanto la vulgata giornalistica tenda a far credere; fra i molti esempi citati nel libro, segnaliamo l’avversione di Samuelson e Tobin per i sindacati in quanto “cartelli”, e l’ostilità di questi economisti di sinistra a ogni ipotesi di salario minimo in quanto distorsiva del mercato. 
Una delle tesi centrali del libro è che gli economisti abbiano svolto, storicamente, un ruolo marginale nella storia dello sviluppo economico: quelli classici, dice Appelbaum, da Adam Smith in poi, sono stati osservatori anziché ispiratori dei mutamenti in atto; e persino Keynes è sopravvalutato come ispiratore del New Deal, perché Roosevelt lo teneva in anticamera e lo squalificava come teorico poco utile nella pratica. Gli economisti, sempre secondo Appelbaum, sono collettivamente assurti al ruolo di consiglieri del principe solo in tempi recenti, dagli anni ’60 del XX secolo, e purtroppo (a suo giudizio) hanno fatto danni. 
Naturalmente si possono fare molte obiezioni. Per esempio: ammesso che gli economisti abbiano dato (nella media) dei consigli così cattivi, e poi siano stati capaci di farli accettare ai politici, sarà stato per la forza dei loro argomenti, o perché i politici andavano semplicemente in cerca di determinati slogan, per giustificare politiche economiche che avevano già deciso di realizzare? In effetti, quando nel libro di Appelbaum si vedono in azione Kennedy, Nixon, Clinton eccetera, si ha l’impressione che prendano dagli economisti à la carte quello che vogliono, anziché farsi dettare la linea. Pare che l’economia politica, al difuori delle aule universitarie, sia poco economica e molto politica.
Ci siano consentite due note personali. Nel dibattito che Keynes e Friedman avviarono negli anni ’40 sulle origini dell’inflazione, Keynes attribuì l’aumento generale dei prezzi a una serie di possibili cause, da un incremento della spesa pubblica a una temporanea insufficienza nell’offerta di petrolio o a pressioni sindacali per salari più alti. Friedman invece puntava il dito su una causa singola: il governo stampa troppa moneta, espandendo la quantità di moneta in circolazione più in fretta di quanto cresca l’economia. Ora, il fatto sorprendente è che settant’anni dopo i sostenitori dell’una o dell’altra tesi non sono ancora in grado di dimostrare alla controparte che si sbaglia: possono cercare di convincere l’interlocutore a cambiare idea, col metodo socratico, come se gli economisti di oggi fossero filosofi greci antichi, ma non possono mettere l’avversario di fronte all’evidenza del torto e della ragione e dirgli: “ecco qua, è dimostrato”, come si fa ad esempio nella scienza chiamata fisica. Certo, anche in fisica ci sono temi di frontiera su cui si dibatte, magari a lungo, ma alla fine il torto o la ragione vengono dimostrati. Per esempio: sulle origini dell’Universo, la teoria del Big Bang è stata a lungo contrastata da quella dello “stato stazionario”, ma alla fine una delle due è stata verificata, e l’altra falsificata. Succede così in economia? No. Due economisti, seguaci di Keynes e di Friedman, che disputano eternamente sulle cause dell’inflazione e non riescono mai ad arrivare a un punto fermo, non sono come due fisici che non trovano l’accordo su un una questione alle frontiere della scienza, ma sono come due fisici che non si trovano d’accordo sul fatto che la gravità sia una forza attrattiva o repulsiva, cioè cha la mela di Newton cada verso il basso o voli verso l’alto. In queste condizioni l’economia non sembra possa essere considerata una scienza, per quante formule matematiche riempiano i suoi manuali. 
Seconda notazione personale. Negli anni mi è capitato di intervistare cinque o sei economisti fra quelli citati da Appelbaum, inclusi i Premi Nobel Amartya Sen e Paul Krugman. Ce n’è stato un altro, di cui non faccio il nome, e che Appelbaum cita fra i peggiori, dal suo punto di vista, cioè un rappresentante esemplare del “pensiero unico” in economa, a cui chiesi, poco prima del crac del 2008, che prospettive intravedesse per l’economia globale nei mesi seguenti, e lui mi rispose: tutto bene. Lo intervistai di nuovo qualche mese dopo il crac, obiettandogli: “Professore, va bene che gli economisti possano sbagliarsi sui modi e i tempi di una recessione o di una ripresa, ma come è possibili che non siate riusciti a cogliere, collettivamente, i sintomi di una crisi di sistema? Non dovrebbe essere esattamente quello il vostro lavoro?”. Lui mi rispose: “La colpa non è stata degli economisti, ma dei regolatori che hanno dormito”. Una tale risposta, come minimo, è inadeguata. Appelbaum obietterebbe (e lo faccio anch’io, nel mio piccolo): i regolatori, cioè le pessime banche centrali che hanno creato i presupposti della crisi e poi si sono auto-incensate per aver rimediato ai loro stessi errori, recano (tutti e tutte) l’imprinting del pensiero unico di cui sopra. 
Chiudiamo citando per la seconda volta Rampini: “I più autorevoli economisti del tempo avevano ispirato decisioni – delle banche centrali, delle autorità di vigilanza sui mercati, dei governi – che provocarono quel disastro della finanza. Non vi è traccia di un’autocritica di massa per la responsabilità di quegli eventi. Né di ravvedimento”. 

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