«Una vita migliore», il thriller di Susan Allot che fa luce sulla «generazione rubata»

La scrittrice britannica nella sua opera prima, di cui pubblichiamo un estratto, affronta il tema importantissimo dei bambini aborigeni australiani sottratti alle loro famiglie. E qui ci racconta come ha scavato nella storia australiana
«Una vita migliore» il thriller di Susan Allot che fa luce sulla «generazione rubata»

Una vita migliore, opera prima dell’inglese, trapiantata in Australia, Susan Allot (ora in libreria per HarperCollins, ndr) è un thriller avvincente. Un romanzo, ma che scava in modo accurato e profondo dentro la triste vicenda dei bambini rubati australiani, per molti anni rimasta top secret nel Continente e ancora oggi praticamente sconosciuta nel resto del mondo. È la storia terribile della stolen generation, la generazione rubata: si parla di almeno centomila bambini portati via agli aborigeni per affidarli a missioni religiose ed educarli secondo «lo stile di vita bianco».

«All'epoca in cui è ambientata Una Vita Migliore (1967, ndr), c'era un grande silenzio sul fatto che i bambini aborigeni fossero stati allontanati dalle loro famiglie», racconta l'autrice, «Ciò era in parte dovuto alla mancanza di consapevolezza tra gli australiani bianchi. Ma penso che ci fossero anche persone che sapevano e tacevano perché si vergognavano. Era argomento innominabile. Al giorno d'oggi non è un segreto, ma nel Regno Unito la maggior parte delle persone non ne è a conoscenza. Io ho studiato storia fino all'età di 18 anni e l'Australia è stata appena menzionata».

Per scrivere il libro, Allot si è documentata a lungo: «Sul sito web della National Library of Australia, dove ci sono centinaia di registrazioni di australiani a cui sono stati sottratti i propri bambini. Alcune testimonianze le ho ascoltate più volte. Sono incredibilmente tristi e commoventi. E poi ho consegnato il mio manoscritto a un aborigeno che viveva nel New South Wales, che l'ha controllato e ha dato la sua approvazione».

Un estratto da Una vita migliore.

Ivanhoe, Nuovo Galles del Sud, 1966

Fu Steve a vederla per primo, in ginocchio nel fango sulla riva del ruscello. Sembrava contenta. Con lei c’erano cinque o sei ragazzini più grandi, che cercavano di infilzare qualcosa nell’acqua con un bastone. Si girò, tenne il piede sull’acceleratore e pregò Dio che lei scappasse prima che Harry potesse vederla. Sentiva la camicia bagnata contro il sedile dell’auto. Canticchiò qualcosa per spezzare il silenzio e si consentì per un attimo di credere che non avrebbe dovuto farlo; avrebbe detto a Ray che non era riuscito a trovarla. Con un po’ di fortuna avrebbero avuto qualche mese molto impegnato e la faccenda sarebbe passata in secondo piano. Quella notte sarebbe riuscito a dormire. Ma non ebbe fortuna. La bambina scattò in piedi e gridò agli altri di venire a vedere, venite, guardate qua. Agitò il bastone in aria. Steve continuò a guidare, continuò a canticchiare, e lei continuò ad agitare il bastone e a gridare. Perché lo faceva? «Eccola!» Harry si alzò di scatto. «Laggiù, vicino al ruscello.» Steve frenò. Spense il motore. «Hai occhio, amico.» Harry andò da lei, tranquillo e sereno, come se fosse il suo zio preferito venuto a trovarla. Iniziò a parlarle, accovacciandosi sulla riva. Steve sapeva cosa le avrebbe detto:

«Ti porto a fare un giro sul furgone della polizia». Diceva sempre così. «E poi ti farai una piccola vacanza.» Steve scese dal furgone e aspettò. Harry allungò la mano e la bambina la prese. Era affascinata da lui, si vedeva. Lo guardava e sorrideva. Forse sarebbero riusciti a completare il lavoro in fretta e senza dare nell’occhio. «C’è anche un bambino piccolo» disse Harry, a voce alta quanto bastava per farsi sentire da lui. «Un maschio.» «Dobbiamo farlo oggi?» «Secondo me sì.» Harry lo guardò come se fosse pazzo. «Concludiamo il lavoro, no? Non serve a niente tirarla per le lunghe.» Steve distolse lo sguardo, girandosi verso il ruscello dove giocavano i bambini. Ora se n’erano andati. C’era silenzio; solo un cane che abbaiava, una porta che sbatteva. Qualcuno doveva aver dato l’allarme. Avevano nascosto i figli sotto i letti, negli armadi. I più grandicelli dovevano essersi già rifugiati nel bush, ormai. «Preferirei evitare.» Tenne la voce bassa. «Perché non lasciamo stare, Harry? Non è mai facile con i piccoli.» «Non sta scritto da nessuna parte che debba essere facile». Harry tenne la portiera aperta per la bambina, ancora con quel sorriso da bravo ragazzo addosso. «Non saresti qui se fosse facile» disse, richiudendo la portiera alle spalle di lei.

«Non è facile per loro, voglio dire.» Alzò lo sguardo sulla casa dietro di loro, dove viveva la famiglia. «Non mi sembra giusto, no?» «Gesù, Steve. Che stai dicendo?» Steve guardò Harry. Un altro cane iniziò ad abbaiare, più vicino del primo. «Niente» disse. La bambina si sporse dal finestrino. «Dove vado in vacanza?» Sembrava diffidente. «Posso salutare il nonno?» «Ci parlo io con lui» disse Steve. La sua voce suonavafalsa, come quella di una comparsa con una sola battuta. «Lo avverto io.» «Sbrighiamoci, forza» disse Harry. «E non ti intenerire. È tutto approvato.»

La casa era immersa nel silenzio. Una veranda con il tetto di lamiera e un cane che dormiva all’ombra. Bussò, non troppo forte, ma sentì subito un rumore di passi. Si fece forza. «Che succede?» Un vecchietto aprì la porta. Era più scuro della bambina: pelle nera e capelli bianchi, come un negativo fotografico. Quello che Ray avrebbe chiamato un aborigeno purosangue. Non era molto contento di vedere un poliziotto sull’uscio di casa, e aveva visto anche il furgone giù al ruscello. «Qual è il problema?» Un bambino piangeva piano in salotto, invisibile. Accanto all’uomo il cane si era alzato sulle zampe, mostrava i denti, ringhiava. «Sono qui per i bambini» disse Steve. «Lei è il nonno?» «Che vuol dire?» L’uomo guardò meglio il furgone e vide la bambina sul sedile posteriore. Arretrò per lo sconcerto. Cercò di farsi avanti, gridò il suo nome. *Dora. *«Senti, non rendere tutto più difficile.» Steve lo prese per la spalla e lo spinse indietro nella casa, con forza sufficiente per far capire che faceva sul serio, ma non di più. «Lasciami entrare.» Era buio dentro, e un nugolo di mosche circondava un pezzo di carne su un piatto accanto al fornello. Tre bottiglie di birra vuote erano allineate vicino al lavandino. Il bambino era a sedere bello dritto sul divano, in tuta e pannolino. Aveva smesso di piangere, seguiva i movimenti di Steve con i grandi occhi lucidi.

«Dov’è la madre?» «Fuori» disse il vecchio, guardandosi i piedi. «Le sue sorelle danno una mano con i bambini. Ci sono tre sorelle e cinque cugini. Siamo in tanti a prenderci cura dei piccoli.» «Spiacente. Ci hanno detto di prendere il bambino. Ordini dall’alto.» Il vecchio scosse la testa. «Non potete.» Sollevò il bambino e lo tenne stretto, circondandolo con entrambe le braccia. «Siamo una famiglia unita. Ci prendiamo cura dei bambini.»

Una mosca sbatté sulla piccola finestra e cadde a terra. La stanza era soffocante. Steve iniziò a percepire il suo corpo come estraneo, come se non fosse più padrone di sé. Non sapeva cosa avrebbe fatto di lì a poco. Guardò negli occhi il bambino: uno sguardo solido, saggio e triste. In quel momento qualcosa cambiò dentro Steve, in quella stanzetta a Ivanhoe, ma lui se ne accorse a malapena. Un nodo che iniziava ad allentarsi. «Non lo prenderò» disse. «Puoi tenerti il bambino.» Il vecchio non reagì. Steve non sapeva se aveva realmente detto quello che credeva di aver detto. «Lo lascio qui con 1.Non lo porto via. Ma sua sorella viene con me. C’è già una famiglia affidataria.» Attivò il pilota automatico. «Si prenderanno cura di lei. Riceverà una buona istruzione. Avrà una possibilità nella vita.» A quel punto il vecchio cominciò a piangere, la faccia lunga e tremante. «Posso vederla?» «Meglio di no. Resta qui e tieni buono il bambino. Altrimenti dovrò portare via anche lui.» Steve sentì il vecchio singhiozzare mentre si richiudeva la porta alle spalle. La luce del sole bianca, dura dopo il buio della casa. Il cane alzò la testa, si drizzò sulle zampe posteriori e abbaiò finché non lo vide uscire dalla proprietà. Steve scosse la testa rivolto a Harry mentre saliva sul furgone.

«Non ci sono bambini lì dentro» disse. Gli tremava la mano sulla chiave d’accensione. Voleva piangere anche  lui, adesso che era fuori di lì, lontano dal vecchio e dalla sua disperazione, dal suo dolore. Non aveva alcun motivo di piangere, in confronto a lui, eppure gli doleva la gola e gli occhi minacciavano di traboccare. Era un bastardo, un codardo maledetto. Non riusciva neanche a guardare la bambina lì dietro. «Ho cambiato idea» disse lei, girandosi sul sedile. «Voglio il nonno.» «Tuo nonno dice che devi fare la brava bambina.» Lo disse senza girarsi. «Dice che devi stare seduta tranquilla e non dare fastidio.» Fece retromarcia per qualche metro e una gran nube di polvere si levò intorno a loro. Il vecchio era lì sulla veranda mentre ripartivano, e poi si mise a inseguire il furgone. Steve innestò una marcia dopo l’altra, affondò il piede sull’acceleratore e guidò alla cieca nella polvere finché non fu sparito.

© 2020 Susan Allott© 2021 HarperCollins Italia S.p.A., Milano