Il caso Fedez, la politica e le leggi dello show

Fedez può diventare il nuovo Grillo? E perché no? Siamo il Paese-guida della democrazia dell’intrattenimento, quello che per primo ha appaltato la politica allo spettacolo. Un quarto di secolo fa un partito fu fondato da un impresario della televisione, e vinse le elezioni. Tredici anni fa un partito nacque dagli show di un comico, e vinse le elezioni. Se è già successo, può succedere di nuovo.

Qualcuno ha fatto notare che Fedez vanta su Instagram un numero di follower superiore al numero dei voti presi dal centrodestra alle ultime elezioni. Per non dire della moglie. Un tempo a questa osservazione si sarebbe obiettato che una cosa sono i like e una cosa i consensi elettorali. Ma da quando Piero Fassino sfidò Grillo a farsi un suo partito «così vediamo quanti voti prende», l’argomento non è più utilizzabile. Anzi. Ieri la sinistra si è schieratatoto cordecon l’influencer, e ha intimato alla Rai «basta censura». Ha seguito a ruota Giuseppe Conte, forse immemore di aver insediato lui la dirigenza attuale di Viale Mazzini. Sono tutti comunque già occupati a scegliere i prossimi consiglieri di amministrazione, direttori di rete e caporedattori di testata.

La reazione del centrodestra non è stata meno subalterna all’egemonia culturale di Fedez, solo opposta: gli hanno dato dello squadrista. Neanche l’arresto di Navalny aveva eccitato tanto l’amore per la libertà del nostro mondo politico. È del resto proprio la crisi della politica democratica che rende politico lo spettacolo. La moneta che usa Fedez è la stessa che usava Grillo: l’indignazione. Ce n’è sempre a disposizione in abbondanza nelle nostre società, un gran numero di persone che pensano di vivere nel peggiore dei mondi possibili e che sanno perfettamente di chi è la colpa: dei loro avversari politici. Solo che un tempo questa indignazione veniva portata in quelle che Peter Sloterdijk ha chiamato «le banche dell’ira»: una ideologia o un partito che promettesse di investirla in cambiamento, in rivoluzione, in palingenesi: «Dai a noi la tua rabbia, e noi la useremo per costruire una nuova società, più giusta e migliore». Ma ora queste banche sono chiuse, o fallite, o hanno cambiato ragione sociale. Resta così solo l’indignazione, che è diventata il pane della politica. Tanto è vero che partiti che stanno insieme al governo, e dunque concordano sull’essenziale, diventano irriducibilmente nemici sui temi etici, quelli che per l’appunto consentono di indignarsi.



Si può naturalmente essere d’accordo con ciò che Fedez ha detto dell’omofobia e dei suoi propagandisti. E si deve certamente essere d’accordo sulla sua libertà di dirlo da un palco sul quale è stato invitato. Lo si sarebbe con ancora maggiore entusiasmo se i difensori del diritto di parola di Fedez avessero usato la stessa energia nel difendere le canzoni di Povia, o la comicità di Pio e Amedeo. Ma l’indignazione ha questo di speciale: è selettiva. Non ci si indigna mai contro quelli che la pensano come te.

Ed è perciò che, alla lunga, in assenza di banche che la investano, la moneta dell’indignazione si inflaziona. La si spende in quantità sempre maggiori, ma ci si comprano sempre meno cambiamenti reali. L’evoluzione dei Cinquestelle da questo punto di vista è emblematica: se non si trasforma in politica, la rabbia non può fare altro che divorare se stessa. In fin dei conti anche Salvini è nato come un influencer: con le sue felpe, i suoi meet-up e i suoi video su Instagram. La legge dello spettacolo voleva che trovasse prima o poi un antagonista. Magari l’ha trovato in Fedez.

2 maggio 2021, 20:38 - modifica il 3 maggio 2021 | 13:06

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