Erica Jong: non ho smesso di volare

A quasi 80 anni la scrittrice americana che per prima raccontò il desiderio delle donne parla della sua vita e di come la vecchiaia sia la stagione che ama di più
Erica Jong non ho smesso di volare

Questo articolo è pubblicato sul numero 18 di Vanity Fair in edicola fino all’11 maggio 2021

Esattamente un anno fa, per uno di quegli appuntamenti che si organizzavano nei primi tempi del lockdown, partecipai con quattro amici scrittori a una serata di «letture erotiche» organizzate dalla Scuola Holden. Alessandro Baricco scelse di leggere qualche pagina di Marguerite Duras, Missiroli di Anaïs Nin, Chiara Gamberale di Henry Miller. Io decisi di leggere Erica Jong. Andai a cercare la mia copia originale di Paura di volare del 1977, con la copertina verde mela con una bocca socchiusa sopra, e lessi la parte dove Isadora racconta della sua prima volta con Adrian Goodlove, quella che inizia con «La sua lingua era dappertutto, come l’oceano. Il sue pene è il fumaiolo lungo e rosso di un transatlantico...». Come tutte le ragazzine, e non solo loro, ero entusiasta di Paura di volare perché parlava di desiderio femminile in un modo nuovo, spiritoso, diretto e femminista.

Da allora ho sempre seguito Erica Jong, anche per vedere dove sarebbe andata a parare dopo il successo planetario di quel libro. Oggi Erica Jong è una signora che sta per compiere ottant’anni, vive ancora a New York e comunica la stessa formidabile spavalderia mista a insicurezza di allora. Ed è sempre molto bionda. Ho letto in anteprima la sua autobiografia, che si intitola Senza cerniera (Bompiani editore), e l’ho intervistata.

Ho appena finito di leggere Senza cerniera. Visto che ha ripetuto due o tre volte che lo ha scritto per capire meglio se stessa, mi dica subito che cosa ha capito.«Avevo sempre desiderato fare la scrittrice, ma non sapevo perché. Ora lo so: è perché scrivere libri è il solo modo per arrivare a conoscersi veramente. Attraverso la riflessione, e col tempo. Sono arrivata a capire che la mia vita è stata un misto di eccezionale spavalderia ed eccezionale insicurezza. Ho sempre combattuto l’insicurezza, e forse la spavalderia è stata il mezzo a cui ricorrevo per riuscirci».

Ma ho letto bene che è in analisi da sessant’anni?«A momenti alterni».

Che tipo di analisi ha fatto?«Quando abitavo a Heidelberg una vera analisi freudiana, che mi è stata molto utile. Mi ha dato la libertà necessaria per scrivere i miei libri».

Ho avuto l’impressione che si scusasse per avere scritto un’autobiografia. Il senso di colpa non si sconfigge mai, neanche da nonne? Mi dica che non è così!«Confermo: non è così. Io sono orgogliosa del lavoro che ho fatto. Ma a volte vorrei non essere famosa per il sesso».

Mi racconti che cosa le disse Mario Puzo quando la invitò a pranzo dopo il successo di Paura di volare.«Disse: “Non ti libererai mai dalla maledizione di Paura di volare.” E anche: “Nessuno ti perdonerà per il tuo successo”».

L’anno prossimo compie ottant’anni. Quale è stata la decade più felice?«Forse questa. Non ho paura di avere ottant’anni».

Dice di aver sofferto per tutta la vita di una lieve forma di depressione che non ha nulla a che fare con quella clinica. Mi chiedo: non ne soffriamo forse un po’ tutti?«Credo che quel genere di depressione si accompagni all’intelligenza. A osservare il mondo si vede chiaramente quanto male si possono fare le persone a vicenda. Sono poche quelle che vivono il vero amore e questo ti lascia con una sorta di delusione di fondo. Ma siamo anche benedetti dalla gioia, soprattutto se riusciamo a trovare i nostri compagni di vita. In questo io sono stata fortunata».

I suoi guai con l’alcol li liquida (ops) in poche righe, come mai?«Nella mia vita ho attraversato periodi in cui sono stata dipendente dall’alcol. Ma poi ho smesso. L’alcol non mi controlla. Anzi, ci sono momenti in cui non bevo affatto. Non posso definirmi un’alcolista».

Scrivere è una droga per lei? E leggere?«Scrivere è decisamente una dipendenza: è un modo di far pace con la mia vita. Leggere è una gioia immensa. Gli ultimi mesi li ho passati senza poter fare a meno di Edith Wharton e della sua opera, ed è stata una fonte di grande piacere».

Sua madre e sua nonna erano ansiose, quindi non può che esserlo anche lei. Eppure non lo sembra. Magari un po’ agitata, ma non davvero ansiosa. Mi sbaglio?«Sono sempre stata capace di momenti di straordinaria gioia ed eccitazione, e chi è fatto così è anche soggetto a momenti di profondo sconforto. Via via che si invecchia le cose vanno sempre meglio».

Magari per lei è stato brutto, ma ho trovato il fatto che da piccola avesse paura della luna molto romantico. Che cosa la spaventava?«Quando guardavo fuori dalla finestra della mia camera, che dava a sud, vedevo la luna, e sembrava che mi studiasse come se fosse solo lei a conoscermi veramente. Era questo a spaventarmi».

Doveva essere una ragazzina molto interessante. Perché scrive che ripensandoci oggi si fa pena?«Ho scritto proprio così? Ero così ossessionata dal sesso che non è stato facile».

Avrebbe voluto essere una persona senza problemi ma senza storie da raccontare?«Sono molto grata di essere me stessa e ho imparato ad affrontare gli eccessi».

La fama è una maledizione?«La fama è una maledizione ma uno scrittore non vive il genere di fama più dannoso, quello riservato alle stelle del cinema. In termini generali la mia fama è piacevole perché arriva da persone che leggono, non da chiunque».

Scrive: “Come si diventa se stessi? Attraverso la solitudine e la disperazione, le uniche maestre”. Secondo lei è così anche per gli uomini?«Credo sia vero per entrambi i sessi. Se siamo molto intelligenti vediamo la vita umana in modo troppo chiaro. Ci concentriamo sulla nostra mortalità e non possiamo eliminare le domande esistenziali».

Davvero dopo i sessant’anni gli uomini si indeboliscono mentre le donne scoprono una nuova passione per la vita?«Io credo di sì. Ci sono uomini che sbocciano invecchiando, ma non sono tutti. Credo sia una cosa meravigliosa fiorire invecchiando. L’età che hai non torna ndietro, quindi tanto vale consentirle di darti un po’ di pace».

Quanti anni aveva quando è entrata in una gabbia con due tigri?«Una trentina. A ripensarci dovevo essere pazza».

Dopo quante pagine sente il battito fetale del libro che sta scrivendo?«Mi ci vogliono una cinquantina di pagine per sapere se ho in mano qualcosa oppure no».

È incredibile che lei abbia sempre scritto a mano. Lo fa ancora oggi?«Trovo la macchina da scrivere e il computer molto freddi. Invece il movimento della mia mano sulla pagina mi sembra caldo. Non ho mai imparato a battere a macchina di proposito, perché non volevo essere condannata a un lavoro segretariale, che ai miei tempi era una maledizione per le donne. E poi quando scrivi a mano ti senti più a contatto con l’inconscio. Almeno per me è così».

Ci sono molte pagine belle e condivisibili sui diritti delle donne nel suo libro. Ma un po’ mi ha immalinconito dovermi ricordare del femminismo degli anni Settanta e di come poi si sia disperso e sgretolato, per poi tornare oggi rinnovato e spero più potente e irreversibile. Crede che potrebbe scomparire ancora?«Se si guarda alla storia del femminismo si vede che diventa di moda e poi passa. Se torniamo al Diciottesimo secolo scopriamo che è stato un periodo di grande femminismo, ma poi vediamo che è stato di nuovo oscurato. Ma non credo che la nuova generazione di donne rinuncerà facilmente al proprio femminismo».

Le donne americane sono diverse dalle europee? E in cosa?«Le donne europee sono più in pace con le contraddizioni della loro esistenza. Dovremmo essere cresciute tutte da madri europee».

Scrive che donne e uomini sono ben lontani dall’uguaglianza. Davanti alla legge il corpo delle donne e degli uomini ha uguali diritti?«No. Le donne vengono ancora trattate come un secondo sesso. Spero che non sarà sempre così».

Mi sembra di aver capito che non ha mai ricevuto molestie, è così?«È straordinario ma è così. Però capisco le donne che ne hanno subìte e sono con loro».

Perché crede che non comprenderemo mai veramente la nostra storia fino a che antropologhe, storiche e traduttrici non la riscriveranno?«Viviamo ancora all’ombra della misoginia e ci vorrà un sacco di tempo per mettere al bando quell’ombra».

Ha avuto due sorelle, quattro mariti, una figlia, ora è nonna e zia. In quale figura parentale è più se stessa: la moglie, la madre, la nonna?«Mi piacciono tutti questi ruoli. Mi piace essere la madre di Molly e adoro essere nonna. Ci ho messo parecchio di più ad amare il fatto di essere moglie».

Avrebbe voluto un marito solo per tutta la vita?«No. Che noia!».

Sono più felici le sue amiche sposate o quelle divorziate?«Dipende dalle persone. Non c’è niente di meglio di un matrimonio che funziona, ma sono davvero rari».

Adora sua figlia, ma scrive che bisogna essere capaci di non farsi ferire dall’indifferenza di chi mettiamo al mondo. Quando l’ha capito?«Mentre Molly cresceva. E sono riuscita a non fargliene una colpa».

Cagnolini ne ha ancora?«Due barboncini standard della stessa cucciolata, Simone e Colette».

I gatti le piacciono?«Sì, ma non ci convivo. Li trovo affascinanti e a volte distanti».

Ce l’ha ancora quella casa in Connecticut con api e farfalle?«Purtroppo l’ho venduta l’anno scorso... ma ce ne sarà un’altra».

Si può smettere di essere autodistruttive, nella vita?«Credo di sì. È la cosa bella dell’età».

Lei a quanti anni ha smesso, e come?«Ho rinunciato all’autodistruzione tra i quaranta e i cinquant’anni. Non serviva a nulla, sarei invecchiata comunque».

Se avesse il pisello sarebbe più ricca?«Probabilmente. Ho dovuto combattere per la mia posizione nel mondo letterario come un uomo non avrebbe dovuto».

Ha amiche e amici scrittori? Chi sono?«Sì. Uno dei miei più cari amici è Ken Follett: scriviamo libri molto diversi, ma abbiamo un gran rispetto per la professionalità l’uno dell’altra. Adoro Jay Parini, Susan Cheever, Stephen Mitchell, Daphne Merkin... Mi piace avere amici scrittori e cerco di non essere gelosa del loro lavoro. A che serve?».

Ha letto la biografia di Philip Roth? Vi conoscevate?«Non l’ho ancora letta ma lo farò. Trovavo la sua scrittura così viva che ho sempre comprato i suoi libri appena uscivano. La sua passione e il suo umorismo hanno avuto un’influenza su di me, credo. L’ho conosciuto appena. Mi spaventava».

Senza starci troppo a pensare, mi dica cosa secondo lei non si può morire senza aver letto?«Credo che la lettura debba essere guidata dal piacere, non dall’obbligo, e credo che si debba leggere per gioia. Ci sono libri che un romanziere deve leggere, come Madame Bovary. Ma è meglio farsi guidare dall’amore che dalle paure».

E senza aver visto quale posto?«Bisogna vedere l’India. Bisogna vivere in Italia almeno un po’ perché è importante trovarsi in un luogo in cui uno scrittore non è considerato uno scherzo della natura. Poi l’Antartide, per forza: io ci sono stata, Barbara Follett ha detto che dovevamo andarci e così ci siamo andate».

Sa che una volta ci siamo incontrate, a New York? C’era un vernissage al MoMA, sarà stato l’87.Lei era vestita di velluto. Niente, così, glielo volevo dire. Magari ci vediamo a Venezia, se torna in Italia.«Certo. È il mio Paese preferito».

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