Chloé Zhao, la libertà è un viaggio

In cui ci si spoglia della propria identità e si va alla ricerca del vero io. Così fa la protagonista di Nomadland, l’ultimo film di Chloé Zhao. Che dice: «essere» è qualcosa in cui riescono meglio le donne
Chlo Zhao la libertà è un  viaggio
Joe Pugliese / AUGUST

Qui l'intervista all'attrice premiata per la Miglior Regia pubblicata sul numero 13 di Vanity Fair

È minuta, Chloé. Ma potente. È stata la prima asiatica della storia a vincere un Golden Globe per la regia, e ora è candidata a quattro Oscar per il suo film, Nomadland. Con una lunga treccia e grandi occhi neri sembra un’indiana americana, mentre racconta di rocce, natura, vita in strada. Nata a Pechino da padre dirigente e madre infermiera, e cresciuta da una mamma adottiva, Chloé è sempre stata una ribelle con gli occhi puntati a Occidente. È riuscita a laurearsi in Scienze politiche in un college del Massachusetts, e a studiare cinema alla New York University con un professore come Spike Lee, che deve aver lasciato il segno. Perché sin dal primo film, Songs My Brothers Taught Me, i lavori che Chloé ha scritto, diretto e montato sono sempre finiti nei festival importanti. Dal secondo film, The Rider - Il sogno di un cowboy, si è capito che predilige gli attori non professionisti. Una tendenza magnificata dall’ultimo, Nomadland, basato sui tre anni di inchiesta on the road della giornalista Jessica Bruder. È un viaggio per le strade dell’America e per i sentieri del «nuovo nomadismo», fatto di persone di ogni provenienza, accomunate dall’aver subito il tracollo finanziario e dal non riuscire più a pagare le bollette. Ce le fa conoscere Frances McDormand nei panni di Fern, sessantenne che, a causa del collasso economico della sua città in Nevada, perde tutto, marito incluso. Mette le sue cose in un furgone e inizia un viaggio che la porta in una comunità di nomadi. Lì incontra Bob Wells, l’uomo che ha dato inizio al Rubber Tramp Rendezvous, il campo nomadi in mezzo al deserto dell’Arizona che oggi annovera migliaia di abitanti.

Il suo film, da una parte, mostra gli esiti della crisi del capitalismo; dall’altra, esalta l’allontanamento dal bisogno di oggetti e regole sociali: è una strada verso la libertà?«La ricerca di libertà e la sete di verità sono connaturate all’uomo. Non era mio intento presentare la libertà assoluta, non credo che esista: la fisica del mondo dimostra che le limitazioni ci sono. Ma credo nel viaggio che compie Fern, credo nel perdere tutto quello che definisce la propria identità e nell’avere lo spazio e il tempo per conoscere meglio se stessi: per me libertà significa questo».

Il premio Oscar Frances McDormand non si distingue dai nomadi che recitano nei panni di se stessi.«È il complimento migliore che può fare al film, merito della bravura di Frances. Se riesci a mettere da parte il tuo status di star di Hollywood per sederti e ascoltare davvero chi hai davanti, allora sei un asso. Perché se non sei sincera si vede, la macchina da presa non mente».

Cosa avete in comune, lei e McDormand?«Amiamo le salopette e non ci trucchiamo molto. Io vivo in una valle nel mezzo del nulla, Frances in un paesino ancora più piccolo, su una collina. Ricordo che nel mezzo di uno dei peggiori uragani mai accaduti, Frances mi ha detto: “Andiamo subito in cima alla collina con la macchina da presa!”. Non stavamo nemmeno in piedi, non riuscivamo a sentire quello che dicevamo, ma lei era più viva che mai. Questo ci accomuna».

Un messaggio forte, quello di mostrarsi sullo schermo con facce piene di rughe e corpi sfatti.«Una volta tolti il trucco, il botox e la chirurgia estetica, siamo tutti brutti, grazie a dio. Perché brutti significa umani, fatti di carne e ossa. Io non penso molto, sento quando ho davanti qualcosa di autentico. Se questa pandemia ci sta insegnando qualcosa, è che non abbiamo più voglia di essere sempre perfetti. Una giornalista ha detto a Frances: “Quando guardo la tua faccia sullo schermo mi sembra di visitare un parco nazionale”. C’è una storia sul volto, e se la copri noi non la vediamo».

Temi che non ritroviamo in Eternals**, il blockbuster della Marvel con Angelina Jolie che lei ha diretto e che vedremo più avanti nel corso del 2021.** «Vero, lì c’è molto make-up. Non esiste uno standard unico, bisogna adattarsi al mondo della storia che si racconta. E cercare di portare ovunque un tocco personale».

Da ragazza che tipo era?«Quando vivevo in Cina guardavo solo western, sognavo di essere come Michael Jackson e Madonna e di trasferirmi in Inghilterra o in America. Crescendo, ho scoperto che c’erano molte cose da imparare anche a Oriente. Mia nonna è buddhista e oggi esploro quella dottrina. Poi sono cresciuta con i manga: Akira era protagonista di una delle mie storie preferite. Sto cercando di trovare punti di contatto tra le varie culture».

Fern è un’eroina che non ha bisogno di un uomo per vivere: è una dichiarazione femminista?«Molte donne come lei hanno dedicato la vita a figli e mariti, e dopo la crisi del 2008 si sono ritrovate senza nulla in mano. Si sono chieste: “Io chi sono?”, e sono andate nel mondo a scoprirlo. Ecco perché sono più le donne a vivere nei caravan: per gli uomini è più difficile lasciar cadere l’orgoglio e fare quella scelta. La società è dura con gli uomini, in tema di successo».

L’incontro di Fern con la natura l’aiuta a guarire i suoi traumi.«Esatto. Vede, Nomadland non è un film femminista, ma un aspetto è innegabile: “essere” è una capacità molto più radicata nel femminile».

***Foto: ***Joe Pugliese

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