Cassazione

Segreto professionale, sospeso l’avvocato che fa 35 cause contro il cliente rivelando notizie su di lui

Decine di cause contro l’ex assistito, i familiari e la società, per recuperare gli onorari. Nelle memorie indicate informazioni non rilevanti anche private

di Patrizia Maciocchi

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3' di lettura

Via libera alla sospensione dalla professione per l’avvocato che, per recuperare gli onorari, fa ben 35 cause contro l’ex cliente, la sua società, la ex moglie, i familiari e anche i suoi nuovi difensori, inserendo nelle memorie notizie, personali, non utili alla difesa, apprese nell’esecuzione del mandato. La Cassazione (sentenza 10852) respinge il ricorso del legale, contro la sentenza con la quale il Consiglio nazionale forense aveva deciso di sospenderlo per due mesi, per violazione del segreto professionale e per le frasi offensive, contenute negli atti giudiziari, usate verso l’ex cliente, i suoi familiari e i suoi legali. Memorie nelle quali l’ex assistito, amministratore delegato di una società, veniva indicato come un “vero furfante” artefice della rovina della compagine, deciso a danneggiare economicamente i familiari.

L’uso di termini denigratori

Denigratori anche i passaggi dedicati, in una delle numerose cause, ad una componente della famiglia, indicata come la donna che aveva svuotato il conto in banca della madre il giorno stesso in cui era morta. Il legale non aveva dimenticato neppure i colleghi che erano subentrati nell’assistenza, bollati come «la solita solfa cannibalesca: la categoria forense si sta dividendo, o, almeno specializzando; anzitutto quelli che lavorano, quelli che fanno le cause vere, anche contro gli stessi colleghi alle volte lo meritano, in ultimo in fondo, quelli che fanno le cause ai colleghi (per non far pagare la parcella ai loro nuovi clienti, con i quali normalmente si fanno pagare prima). I giudici insieme al contenuto degli scritti “condannano” anche la grammatica. Ma questo senza conseguenze. Nel merito, l’incolpato si difende sia dall’accusa di aver usato espressioni offensive sia dall’addebito della violazione del segreto professionale. A suo avviso era tutto scriminato dal diritto di difesa e dall’essere le parole “incriminate” - oltre che una reazione ad attacchi insultanti - contenute in atti processuali. Per la Cassazione le cose stanno diversamente.

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Obbligo del segreto professionale e deroghe

Secondo il Codice deontologico forense negli scritti difensivi e nell’attività professionale è vietato usare espressioni sconvenienti o offensive nei confronti dei colleghi, delle controparti e dei terzi. Un dovere che il ricorrente aveva definito il solito “ritornello” sulla illeceità delle frasi considerate tabù negli scritti per recuperare gli onorari. Ma evidentemente la Suprema Corte crede nel brocardo repetita iuvant. Ad aggravare l’uso delle parole censurate - anche in nome del decoro professionale - si aggiunge il fatto che questi erano del tutto gratuiti perché slegati dall’oggetto dei processi.

La difesa fa acqua anche per quanto riguarda la violazione del segreto professionale. Ad iniziare dalla giustificazione che alcune delle notizie contenute negli atti, non erano state apprese dal cliente ma da una memoria del legale di controparte. La Cassazione ricorda che il codice di autoregolamentazione stabilisce come dovere primario e fondamentale per l’avvocato il riserbo e il segreto professionale. Un obbligo di non rendere note «tutte le informazioni che gli siano fornite dal cliente e dalla parte assistita, nonché quelle delle quali sia venuto a conoscenza in dipendenza del mandato». Pur ammettendo dunque che la fonte non fosse l’assistito ma l’avvocato di controparte, non c’è dubbio che la conoscenza delle informazioni sia avvenuta in conseguenza del mandato.

È poi vero che esiste una deroga all’obbligo di segretezza. L’eccezione riguarda la possibilità di divulgazione quando questa è necessaria per svolgere attività di difesa «per allegare circostanze di fatto in una controversia tra avvocato e cliente e parte assistita». Sbaglia però il ricorrente a leggere la norma come un esonero generale. Non era questo il caso in cui poteva scattare l’esimente. Il genere di notizie utilizzate, relative per lo più a vicende personali o di lavoro, non erano legate all’oggetto del contendere. Per finire, sia la compagna del legale sia una sua assistente di studio, erano state citate come testi in una delle tante cause contro la società debitrice, senza imporgli il rispetto del segreto professionale.

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