17 aprile 2021 - 07:47

Paolo Bonolis: «Avrei voluto fare il diplomatico. Per fortuna ho cambiato idea sennò avrei mandato a quel paese Erdogan»

Il conduttore dopo l’exploit di «Avanti un altro: «La leggerezza fa sempre bene». E ricorda i suoi esordi: «Accompagnai un mio amico a un provino alla Rai. Ed eccomi qui»

di Chiara Maffioletti

Paolo Bonolis: «Avrei voluto fare il diplomatico. Per fortuna ho cambiato idea sennò avrei mandato a quel paese Erdogan»
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Studiava per diventare diplomatico ma da bambino avrebbe voluto fare l’esploratore. E alla fine, in qualche modo, Paolo Bonolis ci è riuscito. Solo che, una volta capito che erano rimaste «poche colonne d’Ercole da superare», ha deciso «di percorrere i territori inesplorati che sono gli altri. Ogni persona rappresenta una terra mai vista e conoscerla, ancora oggi, è quello che mi interessa». Nel suo «Avanti un altro», c’è bisogno della bussola. «Non voglio mai incontrare prima i concorrenti perché amo l’imprevedibilità che ognuno porta: situazioni diverse che potrebbero svilupparsi in chissà quali traiettorie». Il programma è stato promosso con una versione anche in prima serata, la domenica su Canale 5.

Contento?

«È una trasmissione che in dieci anni è stata un crescendo. Il 20 per cento della prima puntata mi ha fatto piacere, certo. Considerato il periodo credo ci sia bisogno di uno sgrossamento dell’ansia. La leggerezza fa sempre bene. Così ho provato a dare al preserale — che pure fa sempre buoni ascolti — una dimensione da prima serata. Ma quando si parla di programmi entrano in campo molte variabili; successi o fallimenti spesso dipendono dall’esuberanza eccessiva nelle aspettative mediatiche».

Lei l’ha mai avvertita questa esuberanza nelle aspettative?

«Sì, è successo. Sia Avanti un altro che Ciao Darwin non sono partiti in tromba, ma li abbiamo migliorati piano-piano. Sono non-format privi di antenati e hanno dovuto imparare a camminare. A volte questi prodotti — oggi longevi e venduti all’estero — sono stati guardati con diffidenza».

Quanto le piace creare i programmi che poi conduce?

«Per me è molto importante: sono 40 anni che faccio tv e quasi sempre si è trattato di dare una forma a quello che porto dentro, ai miei pensieri... e di renderli comprensibili. Per me ha senso fare una tv che ti appartiene, allora mi diverto. Non mi interessa essere un maggiordomo di idee altrui ma il narratore di ciò che sono. Anche quei pochissimi programmi non miei che ho condotto, ho dovuto virarli su me stesso per forza».

Cosa dice di lei «Avanti un altro»?

«Parla del mio rapporto con il gioco, con il quiz: di assoluto divertimento e non di ansia. Vedo molti giochi televisivi in cui la tensione è tutta focalizzata sul “saprà” o “non saprà”. Da spettatore non me ne frega niente di quello: se vedo un gioco voglio sia gioioso, farcito di elementi di assoluto disincanto, popolato da gioiosi fantasmini, personaggi buffi, mondi strani, mestieri singolari. Fonti di divertimento e di domande inaspettate che rendono un prodotto imprevedibile».

La critica che a volte le viene mossa è di indugiare su personaggi troppo eccentrici, freak...

«Negli altri quiz i concorrenti vengono scelti con cura perché sappiano e siano di bell’aspetto: è cio che si presume sia necessario per apparire in tv. Da noi questo non esiste: chiunque può partecipare, puoi essere anche solo fortunato. Da noi non esiste questo atteggiamento sprezzante che esclude l’elemento stravagante, anche borderline. Ci sta tutto: ognuno vede ciò che vuole o può vedere».

Nota mai che c’è chi si autocaricaturizza per due minuti di celebrità?

«Si e quelle persone non mi piacciono molto: non mi piace chi cerca di essere chi non è. Io vorrei essere il domatore di tante fiere diverse, riuscendo a tirare fuori da loro quello che deve uscire e smussando quello che va smussato. L’esistenza è tremendamente ricca di individui unici e irripetibili: analizzare la bellezza della diversità era quello che voleva fare anche Ciao Darwin, Chi ha incastrato Peter Pan o, con un tono diverso, il Senso della vita».

Lei è come la vediamo?

«La persona che si vede in tv corrisponde a ciò che sono. Più che i prodotti troppo formattizzati, talvolta è chi conduce che si autoformattizza e mi dispiace: rinuncia alle immense potenzialità che tutti abbiamo. Se ci si conforma, si indossa la divisia di un esercito che nessuno guida».

Come si pone nei confronti del politically correct?

«Una barbarie che costringe un mare di persone meno sicure delle proprie possibilità a camminare facendo una sorta passo dell’oca di cui non si sente la necessità, soprattutto se stai lavorando nella comunicazione. Io non riesco a non corrispondermi».

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Se non il conduttore, quale altro mestiere avrebbe fatto?

«Studiavo per fare una carriera diplomatica: fortunatamente per questo Paese ho intrapreso un’altra strada».

Non sarebbe stato bravo?

«Ho molta pazienza ma in certi contesti viene meno. Tipo Erdogan lo avrei diplomaticamente mandato a quel paese. Incontrando la tv ho avuto la più grande fortuna che ti possa capitare: tutti noi siamo portatori di una o più talenti, solo che spesso non lo sappiamo. Era il 1981 e casualmente, perché avevo il motorino, ho accompagnato un mio amico a un provino alla Rai. Stavo stavo studiando Istituzione e diritto romano. A un certo punto mi hanno detto: e tu non lo fai?».

L’ha fatto.

«Poco dopo mi hanno chiamato per prendere parte a una trasmissione per ragazzi: mi davano 12 milioni di lire per un anno. Allora a casa non si navigava nell’oro, quindi non ho esitato. Lì ho capito che era quello che mi piaceva».

Mai provata invidia per qualche collega?

«Per l’amor di Dio. Non ha proprio senso. Sono molto fortunato perché possa fare quello che mi corrisponde, il resto è una sinusoide: certe volte le cose vanno bene, altre benissimo, altre ancora non così tanto. Ma lo vivo con un sano disincanto: non sappiamo perché siamo su questo mondo, ci possiamo preoccupare di questo? Non a caso il mio programma inizia con la frase: ricordati che devi morire».

C’è anche chi vede prossima la morte della tv. Cosa ne pensa?

«Stiamo attraversando un cambiamento tecnologico che, a livello di contenuti, si poggia su questa illusione divina della velocità. Deve essere tutto tremendamente veloce, se no non è saporito. La stessa comicità, ora, è di immediatezza invece che situazionistica, come preferisco io. La tiktokkeria imperante esaurisce il suo racconto in pochi secondi e sta trasformando la percezione stessa di qualsivoglia tipo di narrazione. Anche i miei ragazzi ormai preferiscono un pernacchio a sette frasi per arrivare a una battuta».

E quindi come immagina il suo futuro?

«Per prima cosa vorrei tornare a viaggiare. Un po’ per il periodo, un po’ per gli anni in cui ho assolto ai miei doveri di marito e di padre, ma non lo faccio da tempo. Sento che non mi dispiacerebbe dedicarmi a qualcosa che non preveda dover lavorare per forza in continuazione. Magari potrei trasformare il viaggiare in un lavoro, una trasmissione».

Nella sua carriera c’è anche un ruolo d’attore. Lo rifarebbe?

«Ma no. L’ho fatto perché mi piace il cinema e per una volta ho voluto viverlo dalla sala macchine grazie ad Alessandro d’Alatri, che mi ha convinto insistendo in modo morboso. Ma sul set mi sono reso conto che i tempi nel cinema sono diversi da quelli della tv».

Troppo lenti?

«Un incubo. Senza contare il cronosisma per cui non si capiva a che punto stavo del racconto, con salti temporali senza senso. La mia prima scena è stata l’ultima del film, non sapevo cosa stava succedendo. E poi si gira a degli orari improbabili: sveglia alle 5, si deve girare alle 7.15 perché solo lì c’è la luce buona... E poi attendere, rifare una scena...».

In tv non le capita?

«Ma che vuoi rifare, non ci penso per niente. In tv la bellezza è cavalcare quello che succede: io credo non si debba mai venire meno all’immediatezza, alla spontaneità. Devi cavalcare la tigre quando esce dalla gabbia: se l’addomestichi è noiosissimo».

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