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Il cardinale Zuppi: «La crisi sprona l’uomo e la comunità al mutamento»

Matteo Zuppi nella cucina dell’Arcivescovado di Bologna davanti a piatti semplici riflette sul senso di un tempo difficile. Il ricordo del padre, il ruolo dei poveri

di Paolo Bricco

Card. Zuppi: "La Chiesa parli a tutti e con tutti"

6' di lettura

Ripubblichiamo questa intervista dell’aprile 2021 al cardinale Matteo Zuppi, neoeletto presidente della Conferenza episcopale italiana.

«Se tu conservi la tua vita, la perdi. Noi italiani siamo impauriti e impazienti. Abbiamo accumulato tanto rancore. La nostra comunità è nel pieno di una crisi di identità: non riusciamo più nemmeno a rappresentarci. Chi siamo? La malattia e la morte ci segnano. La povertà ci insegue. I nostri padri e i nostri nonni si ricordano l’indigenza e le umiliazioni, la determinazione e la dignità. La maggioranza di noi, no. Gli italiani sono invecchiati. Danno alla luce pochi figli. Pensano a conservare quello che hanno. Il futuro dove sta?».

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Il cardinale Matteo Zuppi, 65 anni, è nella cucina dell’arcivescovado di Bologna. Ha una figura filiforme ma non ossuta, senza l’inquietudine da pittura gotica che possono esprimere gli uomini di chiesa magri fino alla secchezza e alla ieraticità. Ha il vestito d’ordinanza, blu scuro, da prete di parrocchia. Unico segno distintivo: una croce di color grigio opaco. Il suo eloquio non è né forbito né barocco, è chiaro e piano. Si muove senza diffondere alcuna aura da principe della chiesa. È romano. Arguto, ma non cinico. Prossimo all’altro, ma in grado di trasformare gli occhi in due fessure scrutatrici.

«Se le va bene, mangiamo qui», mi dice mentre finisce di disporre sulla tavola i piatti e le posate, i tovaglioli e i bicchieri.

Durante la pandemia sono morti oltre centomila italiani in più, il Pil l’anno scorso ha subito una flessione di quasi nove punti percentuali, la tristezza è spesso poco distinguibile dalla rassegnazione, si fatica a trovare un senso.

La Pasqua di nuovo in lockdown

E, dunque, quest’anno la Pasqua ha un profilo particolare per tutti gli italiani, di qualunque confessione religiosa e di ogni orientamento laico.

La sera prima di incontrare il cardinale, in Piazza Maggiore ho visto un signore di cinquant’anni – poteva essere uno chiunque di noi – dimesso ma ben vestito, seduto in terra, con una ciotola verde davanti, di quelle che in campagna servono per dare da mangiare ai cani e ai gatti, e con appoggiato a terra un biglietto che recitava: «Spero in una riassunzione. A voi una moneta non cambia la vita».

Zuppi si allontana un attimo dalla cucina e porta una bottiglia di vino bianco: «Le va bene? Il rosso preferisco berlo alla sera».

Ripartire dall’umanità

Oggi molti spazi dell’anima e tanti angoli della mente sono occupati dalla concretezza e dal pensiero della malattia e della povertà. La fragilità dei corpi produce echi nei silenzi degli spiriti. «In tutto questo dolore – riflette il cardinale – serve ripensare alla cultura profonda di noi italiani. In troppi desiderano chiudere i confini e considerano i migranti provenienti dall’Africa e dal Medio Oriente un pericolo per il benessere declinante. Esiste una umanità da cui ricominciare per ricomporre noi stessi e per affinare la funzione della nostra comunità nazionale in questo mondo che cambia. Luca Attanasio, l’ambasciatore ucciso in Congo, era un esempio di questa antropologia positiva di lungo periodo. La capacità di costruire legami con gli altri, gli sconosciuti e gli stranieri va valorizzata con lucidità e con fiducia. Pensiamo alle missioni di pace dei militari italiani nelle zone di guerra. Dopo avere costruito il campo, i nostri soldati vanno a conoscere gli anziani, le donne e i bambini dei villaggi e dei quartieri vicini. Poi preparano il pane, la pasta e la pizza e li invitano a mangiare. In questo modo, costruiscono relazioni e spesso raggiungono i loro cuori. Sembra poco? Non è così. È tanto».

Assaggiamo l’insalata con i pomodori: «Il pranzo è leggero, non mangio quasi nulla a mezzogiorno». E, con una luce divertita negli occhi, dice: «Un giorno il generale Hashim Mbita, il braccio destro del padre fondatore della Tanzania Julius Nyerere, mi raccontò degli italiani catturati in Africa durante la Seconda guerra mondiale e portati come prigionieri dagli inglesi nel suo Paese. Mbita era un bambino. Il campo degli italiani era vicino al suo villaggio. “Don Matteo, voi italiani eravate bravissimi. La prima cosa che costruivate era la chiesa. La seconda era la scuola. La terza era la falegnameria”». A questo punto Zuppi interrompe il resoconto, sorride e mi dice: «Io sono un prete, non posso dirglielo, ma le lascio immaginare quale fosse la quarta cosa che gli italiani costruivano…».

Zuppi tira fuori dal frigorifero del Parmigiano Reggiano, con una stagionatura superiore ai trenta mesi, e prende dalla dispensa dell’aceto balsamico, da mangiare insieme, una delle combinazioni semplici della cucina dell’Emilia-Romagna.

«Ho sempre trovato interessanti i saggi sul cibo e il Cristianesimo del filosofo Tullio Gregory e divertenti gli scritti sul cibo e il potere della Prima e della Seconda Repubblica del giornalista Filippo Ceccarelli, che frequentava il mio liceo, il Virgilio di Roma», spiega.

I ricordi dell’infanzia

Roma, dunque. La Roma luminosa e popolare dove Zuppi è cresciuto nel quartiere del Pantheon, in una famiglia formata dal padre Enrico («romano di Roma») e dalla madre Carla («brianzola di Seveso») con quattro fratelli (Giovanni, Luca, Marco e Paolo) e una sorella (Cecilia). Zuppi si alza. Va nel suo studio. E torna con una copia dell’“Osservatore della Domenica”, il settimanale dell’“Osservatore Romano”, dove lavorava come giornalista suo padre. Mi indica un articolo: «Mio papà scriveva raramente. Era un uomo di macchina, come dite voi nelle redazioni. In questo caso, invece, firma un commento al discorso alla luna pronunciato l’11 ottobre 1962 da papa Giovanni XXIII, quello del “tornate a casa, date una carezza ai vostri figli e dite loro che è la carezza del Papa”. Mio padre, in questo articolo, introduce il tema della non semplicità di dare una carezza ai figli adolescenti, come erano i miei fratelli. Io, infatti, avevo sette anni ed ero il penultimo. Soltanto Paolo era più piccolo di me. Si avvertono, nelle sue parole, la ritrosia e l’asperità del legame con i figli che crescono e diventano poco alla volta adulti. Una cosa non facile, ma molto bella», si intenerisce Zuppi.

Il piatto principale è costituito da petto di tacchino affettato e da prosciutto crudo di Parma. Lui prende il primo. Io il secondo. Nel senso della storia di Zuppi, esiste una attitudine razionalistica e pragmatica verso la contemporaneità, che viene filtrata attraverso il messaggio di Cristo. Il cardinale conosce le chiese vuote dell’Occidente. Ha una idea precisa di come la nuova geo-politica, originatasi con la caduta del Muro di Berlino nel 1989, corrisponda anche a una nuova geo-spiritualità, di cui il papa argentino “venuto dalla fine del mondo” è una incarnazione. Intuisce la deriva nichilista che potrebbe ulteriormente germinare dalla paura di tornare poveri, in società come la nostra che hanno sperimentato settant’anni di crescente benessere economico. Osserva, senza farsene condizionare, gli impulsi della chiesa ad accartocciarsi negli scontri, nell’ostilità e nelle divisioni. Non apprezza né la deriva populistica della destra né l’elitarismo della sinistra: categorie politiche e culturali - la destra e la sinistra - del Novecento, peraltro, oggi usurate e da rimodulare.

Alla ricerca di un senso

Riflette il cardinale: «Occorre cercare il senso. Anche nella oscurità materiale e spirituale. La crisi è il codice con cui misurarsi. Il conflitto, invece, è un paradigma sterile. La crisi sfida l’uomo e le comunità al cambiamento. Il conflitto decostruisce e delegittima. Bisogna mirare all’unità dello sguardo e del cuore. La forma politica e sociale di un più profondo fenomeno di deterioramento religioso e culturale è rappresentata dalla contrapposizione fra élite e popolo. Chi la adotta e chi, con concupiscenza, la stimola e la nutre compie un errore. Ha ragione papa Bergoglio: capisci il centro solo dalla periferia. Ho sperimentato questo metodo da appartenente alla Comunità di Sant’Egidio: la nostra salvezza sono stati i poveri. Avremmo potuto diventare quello che a Roma si definiscono “terrazzari”: impegnati soltanto nel dialogo con le così dette classi dirigenti, nei salotti e nelle cene appunto sulle terrazze romane. Invece, i marciapiedi pieni di poveri ci hanno salvato».

Dal frigorifero della cucina, spunta una torta di riso. Da accompagnare con un piccolo bicchiere di grappa. «L’importante – dice – è coltivare una spiritualità che ti faccia stare dentro alla storia, senza indulgere in intimismi, ma accettandone anche le tragedie. L’intimismo, che è l’equivalente interiore del pensiero debole, ti fa stare bene soltanto da solo: ti induce a cercare il benessere a ogni prezzo, moltiplicando nella vita di tutti i giorni le dipendenze. Invece, l’accettazione della tragedia è una delle forme della sfida dell’infinito: ti fa capire chi sei».

Il Dio delle piccole cose

In un tempo di sbandamenti e di disorientamento, la speranza è quindi fondata sul vivere l’esperienza, cercare il significato e approfondire la spiritualità. Accettando la gioia e la soddisfazione al pari del dolore e della paura. E tenendo a mente il Dio delle piccole cose, espresso per esempio nelle parole di Ennio Flaiano: «La felicità è desiderare esattamente ciò che si ha».

«Oggi il caffè glielo faccio io con la macchinetta. A Roma e, anche qui a Bologna, mi piace tanto scendere in strada per berlo al bar, lo trovo più buono», racconta Zuppi, un tempo parroco di Santa Maria in Trastevere, adesso cardinale di Bologna, sempre don Matteo.

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