Il papà di due gemelli autistici, in un'età difficile: «I nostri bambini crescono, qualcuno ci pensa mai?»

Il 2 aprile si celebra la Giornata Mondiale sulla Consapevolezza dell’Autismo. Per i genitori di Pietro e Niccolò, che proprio il giorno dopo la “loro” giornata, compiranno 13 anni, le maggiori difficoltà stanno arrivando proprio adesso, con l'entrata nella pubertà di entrambi i figli affetti da autismo. «Eroi per qualche ora, e poi? Per noi ogni giorno è il 2 aprile». Ecco la loro storia
Il papà di due gemelli autistici in un'età difficile «I nostri bambini crescono qualcuno ci pensa mai»

«Gentile Silvia, le scrivo perché, come recita l’oggetto della mia mail, il 2 aprile è la Giornata Mondiale sulla Consapevolezza dell’Autismo, e noi, io mi chiamo Donato e mia moglie Antonella, siamo parte in causa, essendo i genitori di Niccolò e Pietro, gemelli. Ed entrambi autistici». Dice Donato Montanari che non sa nemmeno lui perché ha fatto una cosa che non aveva mai fatto prima: scrivere a un giornale. «Forse un gesto di stanchezza», mi spiegherà poi, quando ci parleremo. «Questo 2 aprile, ogni anno di più, mi fa sentire come quei vecchi reduci della Grande Guerra che una volta l’anno tirano fuori dalle scatole le loro medaglie, le spolverano e le indossano, per poi riporle al tramonto. Eroi per qualche ora, e poi chi se li ricorda. Ma per noi ogni giorno è il 2 aprile».

Nati dopo molta attesa e grazie alla fecondazione assistita, Niccolò e Pietro sono cresciuti dentro due diversi sacchi amniotici, ma sono nati accomunati da una patologia che all’inizio si è manifestata con silenzi ostinati che facevano pensare a un problema di sordità («invece ci sentono benissimo») e poi dalle gestualità tipiche: sguardo che sfugge, camminare sulle punte, mani che sfarfallano. La diagnosi è stata facile: sindromi dello spettro autistico, al plurale, perché l’autismo è tantissime cose e Pietro e Niccolò non sono uguali nella loro malattia. «All’inizio», ricorda Donato «ti senti invincibile: ce la farò, ce la faremo. Prendi le misure delle cose, crei un codice comunicativo che non preveda, per loro, la necessità di parlare. All’inizio era difficile, ma in qualche modo ci arrangiavamo. Camminando su quell’equilibrio sottile come un filo, mi chiedevo: che cosa mi può succedere? Quello che poteva succedere, ed è successo, è che i miei figli sono cresciuti. I miei due bambini i sono diventati due ragazzi che, proprio il giorno dopo la “loro” giornata, compiranno 13 anni. I bambini autistici crescono, anche se sembra che nessuno ci pensi mai. Niccolò e Pietro sono diventati alti come me, investiti in pieno dalla pubertà, con sentimenti e pulsioni che non sanno interpretare né verbalizzare. Il desiderio del corpo li rende inquieti e violenti».

Donato ha voglia di raccontare un po’ di verità sulle loro quattro vite. La verità è che Pietro, che dentro è ancora bambino, non capisce che cosa stia succedendo al suo corpo, e allora si morde e si strappa i capelli. Di notte cammina sugli armadi, alle 4 del mattino «siamo lì, a convincerlo a scendere». Niccolò, che dei due è quello che ha capito come gestire i suoi impulsi sessuali in privato, però è diventato violento con gli altri. «Quando Antonella capisce che sta per esplodere si deve chiudere in bagno. Io ho abbastanza forza per contrastarlo, ma per quanto ancora?».  La scorsa estate hanno provato a fare una breve vacanza a Rimini. «Ma siamo dovuti tornare il secondo giorno, di corsa». Racconta quei mesi con una parola terribile: «mattanza». Da qualche tempo le cose sembrano andare meglio: a Niccolò è stato somministrato un farmaco di nuova generazione («i farmaci servono, lo scriva per favore») ed è più tranquillo, quasi coccolone. «Quando in ufficio mi chiedono: ma tu per il lavoro non ti arrabbi mai? penso che con la vita che facciamo, forse sono diventato insensibile».

Perché poi c’è anche il lavoro, la normalità, come per tutti. «Esco di casa e devo ricordarmi che il mondo ha codici, regole e tempi diversi. Devo resettarmi, e farlo di nuovo prima di aprire la porta, quando torno». Antonella fa l’educatrice, si occupa di bambini disabili, Donato lavora in un’azienda non lontano da casa. Di giorno i ragazzi frequentano il Dosso Verde, una scuola che ha una sezione speciale per persone con le loro necessità. Usano la comunicazione aumentata alternativa: un vocabolario fatto di immagini. Sanno fare operazioni matematiche e scrivono alcune parole sul tablet. «L’inclusione scolastica è un bel concetto che forse per alcuni funziona, ma non per tutti. I mie figli in una classe normale seguiti da un’insegnante di sostegno è una cosa che non funzionerebbe mai. Mi dicono: i compagni di classe si prenderebbero cura di loro. Ma non è vero, è un’impresa troppo difficile anche per noi che siamo i genitori, figurarsi per dei coetanei». Grazie a due insegnanti della scuola, alle quali i ragazzi si sono affezionati, Antonella e Donato sono riusciti, prima dell’ultimo lockdown, a uscire una sera a cena, loro due da soli. «Un’ora e mezza soltanto, mentre le ragazze erano a casa con loro». Di solito, e molto raramente anche in tempi di non pandemia, escono coi figli. Hanno individuato un paio di pizzerie che accettano «i nostri tempi e le nostre bizzarrie». Da quando entrano a quando escono non possono passare più di 25 minuti, conditi di rituali che la maggior parte dei ristoranti non è disposto a tollerare. Ma adesso, coi lockdown, non si pone nemmeno il problema, e anche se i locali fossero aperti Donato non potrebbe rischiare di prendersi il covid: è diabetico, soffre di obesità, da 13 anni è costretto a dormire con la C-pap, il casco diventato tristemente noto come terapia respiratoria proprio per i malati di Covid. «Se lo prendo sono morto. In più sono un caregiver di ragazzi disabili. Ma nessuno di noi, né loro né io, è stato chiamato per il vaccino. Ogni volta che esco di casa è come se giocassi un po’ a testa o croce con il destino».

Quando pensa a quello di Pietro e Niccolò, di destino, Donato sente venirgli meno le forze: il tema del dopo di noi, così centrale per tutti i genitori che hanno sulle loro spalle l’onere quasi esclusivo della vita dei figli, è finito in secondo piano nel cervello, travolto dalla quotidianità tumultuosa: «Ci va già di culo se il giorno dopo è uguale a quello prima. A pensare più in là adesso non riesco», ammette. «Certo il sogno è che possano diventare, seppure con un supporto, autonomi. Che possano trovare un posto in cui vivere in sicurezza e serenità».

E così, nel giorno delle medaglie, Donato e Antonella, trovano un senso in questo 2 aprile per chiedere di essere visti. In un tempo in cui a 1 bambino ogni 7 viene diagnosticato una sindrome dello spettro autistico, forse è arrivato il momento di istituire una commissione che si occupi dei bisogni di questi bambini, che saranno ragazzi e poi uomini, e delle loro famiglie. «Ho voluto essere sincero sulla nostra situazione. Amo i miei figli sopra ogni cosa, il profumo della loro pelle mi sveglia la mattina e mi tiene vivo, giorno dopo giorno, anche quando questi giorni sono duri. Ma è difficile: bisogna dirlo, essere ascoltati. E aiutati».

LEGGI ANCHE

Coronavirus e autismo: l’importanza della routine, anche in quarantena

LEGGI ANCHE

«Lo specchio di Lorenzo»: su Ray Yoyo, il corto animato per la Giornata della Consapevolezza sull’autismo

LEGGI ANCHE

Autismo, Francesca: «Mio figlio Federico che ha imparato a riconoscere le emozioni»