11 marzo 2021 - 23:02

Letta, la «rivincita» dell’ex premier Dopo sette anni finisce l’esilio parigino

Nel 2014 lo «stai sereno» di Renzi. «Grande lezione di vita»

di Monica Guerzoni

Letta, la «rivincita» dell'ex premier Dopo sette anni finisce l'esilio parigino
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Nel 2007, quando sfidò Veltroni e Bindi alle primarie per la leadership, sognava un Pd «a tinte forti» come i quadri di Van Gogh: «Un giallo che sia giallo, un blu che sia blu». Quattordici anni e otto segretari dopo tocca a Enrico Letta dare forma e colore a una forza politica sempre più pallida e sbiadita, in crisi di identità e in calo nei sondaggi. Invocato come l’uomo della provvidenza, paragonato a Mario Draghi e al Conte di Montecristo di Dumas e atteso (o temuto) dai dem come la nemesi della mitologia greca, l’ex premier è pronto a togliersi di dosso la grisaglia per indossare l’elmetto.

Un sì meditato, sofferto e forse inevitabile per uno che sente ancora «il Pd nel cuore». Incredibile ma vero dopo il fuoco amico, i voltafaccia e i tradimenti che lo hanno costretto a lasciare nel 2014 Palazzo Chigi, poi il partito e anche il Parlamento, raro esemplare di deputato che molla lo scranno per cercarsi «un mestiere vero». Sette anni dopo e «un po’ di capelli in meno», Letta mette fine all’esilio parigino e atterra a Roma, il trolley pieno di nuove esperienze e soddisfazioni. Ha fondato due istituzioni no-profit, la Scuola di Politiche e l’Associazione Italia-Asean ed è presidente dell’Istituto Jacques Delors. L’Ècole d’affaires internationales di Sciences Po, da cui dovrà dimettersi, è passata sotto la sua direzione dal tredicesimo al secondo posto nel mondo dopo Harvard e certo gli sarebbe piaciuto, magari il prossimo anno, arrivare in vetta.

Riformista liberale, ulivista, europeista, ambientalista e milanista sfegatato, Letta professa da sempre un «rispetto sacrale delle istituzioni», ha con Draghi un buon rapporto ma non millanta chissà quale consuetudine. Detesta il dileggio, l’insulto, le scorciatoie, la «selfizzazione del messaggio politico», la ruspa di Salvini e il machiavellismo di Renzi. Un tempo gli faceva orrore anche il «vaffa» di Grillo, ma negli anni Oltralpe è diventato un teorico del dialogo con i 5 Stelle: «Il populismo non può essere liquidato come un grido di rabbia, semmai è un grido di dolore».

Nato a Pisa il 20 agosto del 1966 e laureato in Diritto internazionale, è sposato con la giornalista del Corriere Gianna Fregonara e ha tre figli, Giacomo, Lorenzo e Francesco. Il quasi-segretario del Pd muove i primi passi nel Partito Popolare. Il suo «padre» politico è Beniamino Andreatta, l’ideatore dell’Ulivo, che nel 1993 segue al ministero degli Esteri come capo segreteria nel governo Ciampi. Vicesegretario del Ppi dal gennaio 1997, un anno dopo a 32 anni D’Alema lo chiama alle Politiche comunitarie e Letta strappa ad Andreotti il primato di più giovane ministro della storia repubblicana. È solo l’inizio di una carriera politica da predestinato, che lo vede ministro nei governi D’Alema e Amato e nel 2004, con la lista Uniti nell’Ulivo, deputato europeo da 176 mila preferenze.

A Palazzo Chigi entra per la prima volta nel 2006 da sottosegretario alla presidenza, Prodi ha battuto Berlusconi e Gianni Letta deve lasciare il posto al nipote. Un anno dopo, quando nasce il Pd, l’ex responsabile per l’Economia della Margherita si candida alla segreteria con un video su Youtube: «Vorrei fare in modo che il nuovo partito sia costruito un po’ come l’enciclopedia Wikipedia». Si piazza terzo e Veltroni, primo segretario, lo sceglie come ministro ombra del Lavoro. Nel 2008 è eletto deputato e nel 2009, quando Bersani vince le primarie, lo chiama al suo fianco come vice. La stima oggi è ancora intatta. «Prima del diluvio - lo abbraccia l’ex segretario — c’era un partito in cui due persone come noi potevano collaborare con vera amicizia e lealtà».

Due virtù che adesso a dir poco scarseggiano nel Pd dilaniato dalla lotta intestina, eppure Letta non sembra preoccuparsi troppo. Il partito è molto cambiato, ma anche lui lo è. La «cacciata da Palazzo Chigi» che Renzi gli impose nel 2014 è stata una lezione dura di cui ha fatto tesoro. Nel 2017 Renzi scrive Avanti e lo tira in ballo «in modo sgradevole» e Letta, che per stile e formazione avrebbe risposto con un silenzio gelido, per una volta non si tiene: «Si sta avvitando in una spirale degna di Freud». Due anni dopo nel libro Ho imparato Letta si racconta come un uomo che è caduto e si è rialzato, grazie agli studenti di Sciences Po e ai cento ragazzi italiani che ogni anno si iscrivono alla sua Scuola di Politiche. Suonerà paradossale, ma l’ex premier arriva a ringraziare Renzi per averlo rottamato: «Non poteva capitarmi esperienza più carica di lezioni di vita».

Chi apprezzava (o detestava) la sua moderazione, la diplomazia felpata e un autocontrollo a volte scambiato per freddezza, scoprirà un Letta pronto a dare battaglia. Se in passato è stato «troppo morbido», ora ha imparato che «dentro i conflitti bisogna immergersi fino in fondo», perché di questi tempi la radicalità delle idee «è imperativo categorico». Insomma, basta con la mediazione a tutti i costi. Le correnti del Pd, alle quali ha chiesto come unica condizione di «essere messo in condizione di far bene», sono avvisate.

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