Cronaca

"Le varianti? Ingannano il sistema immunitario meno di quanto crediamo"

Alessandro Sette, ricercatore italiano a La Jolla, ha osservato che gli anticorpi possono essere spiazzati dai ceppi mutati del coronavirus. Ma un altro attore del sistema immunitario, le cellule T, riconoscono ugualmente anche le nuove versioni di Sars-Cov2. "Potremmo studiare vaccini più efficaci contro tutte le varianti"
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Le varianti del coronavirus possono ingannare il braccio armato del nostro sistema immunitario: gli anticorpi. Ma riescono meno ad aggirare un’altra sua componente, che si avvicina più alla definizione di “servizio di intelligence” della nostra immunità: i linfociti T. Gli anticorpi sono gli unici in grado di neutralizzare materialmente il coronavirus. Ma potrebbero tendere a svanire nel lungo periodo e a essere inefficaci con alcune varianti. Un'altra componente importante della risposta immunitaria sono le cellule T, depositarie della memoria, capaci di orchestrare la risposta del sistema immunitario. Le quali, ha appena osservato Alessandro Sette, ricercatore del La Jolla Institute for Immunology in California, tendono a riconoscere in modo efficace anche le varianti del coronavirus.

Insieme al suo gruppo, Sette ha scoperto che i linfociti T sono efficaci contro le varianti inglese, brasiliana, sudafricana e californiana, sia quando sono prodotti dal vaccino, sia quando derivano da un’infezione naturale. Lo studio è pubblicato su biorXiv. “Non sappiamo ancora quanto duri la memoria con Sars-Cov-2. Ma nel caso della prima Sars, quella del 2002-2003, alcuni colleghi hanno trovato le cellule T negli ex pazienti infettati 17 anni prima”.

Non è necessario dunque adattare i vaccini alle varianti?

“Sì, è sempre meglio farlo. Vediamo che i vaccini sono efficaci in Israele, che ha un’ampia circolazione del ceppo B.1.1.7, la variante inglese. Ma la sudafricana e la brasiliana hanno una mutazione più preoccupante, dal punto di vista della riduzione della risposta degli anticorpi. Ci sono stati anche casi di reinfezione, negli ex pazienti che erano guariti dal coronavirus ancestrale, quello di Wuhan”.

Allora in che consiste il vostro messaggio rassicurante?

“Gli anticorpi possono diventare meno efficaci, nel legare e bloccare il coronavirus mutato. Ma abbiamo osservato che le cellule T riconoscono bene anche i nuovi ceppi”.

E questo cosa vuol dire?

“In genere le cellule T non impediscono l’infezione, ma è verosimile che modulino la severità della malattia. Evitano cioè che i sintomi diventino gravi. Abbiamo osservato nelle persone contagiate che quando la risposta delle cellule T è precoce e robusta, il Covid si risolve senza complicazioni. E anche chi non riesce a produrre anticorpi per ragioni genetiche o per trattamenti farmacologici non ha necessariamente la forma grave della malattia. Segno che altri attori del sistema immunitario contribuiscono a proteggerci dalle forme gravi di Covid”.

Come avete fatto a vedere che le cellule T riconoscono ugualmente il virus di Wuhan e quelli mutati?

“Abbiamo preso le cellule T da persone guarite o vaccinate con Pfizer o Moderna e le abbiamo messe a contatto con il virus. Ma non con Sars-Cov2 intero: i linfociti T riconoscono solo singoli frammenti del virus, che noi abbiamo sintetizzato in laboratorio. Abbiamo costruito delle proteine del ceppo di Wuhan e delle proteine dei ceppi mutati. Mettendoli a contatto con le cellule T, le abbiamo viste attivarsi in tutti i casi, senza differenze apprezzabili”.

Quindi?

“Chi è guarito dall’infezione con il virus di Wuhan o chi viene vaccinato oggi potrebbe non essere totalmente protetto da un nuovo contagio con il virus mutato. Ma è possibile che abbia meno sintomi grazie all’azione delle cellule T”.

La nostra preoccupazione per le varianti è eccessiva?

“Non mi sentirei di arrivare a questa conclusione. Tutte le varianti sono più contagiose, e questo basta a costringerci a tenere alta l’allerta e impegnarci per il monitoraggio. Alcune varianti poi evadono almeno in parte la risposta degli anticorpi. Migliorare i vaccini potrà solo aiutarci a uscire dall’emergenza che oggi è ancora molto acuta”.

Cosa dovremmo fare dunque?

“Abbiamo tre possibilità. La prima è somministrare una terza dose del vaccino originale. Un richiamo aggiuntivo potrebbe generare più anticorpi. Se anche una quota non riconosce la variante, averne un numero maggiore offre una protezione migliore. La seconda è adeguare il vaccino alle varianti. Al posto della spike di Wuhan, occorrerà usare come antigene la spike di una delle varianti. Aggiornare i vaccini non è semplicissimo, ma di certo non sarà lungo e laborioso come farlo per la prima volta. E diversi gruppi sono già in fase avanzata di produzione dei vaccini aggiornati. Già il vaccino per l’influenza viene adeguato di anno in anno ai nuovi ceppi in circolazione. La terza strada infine è esplorare la possibilità di mettere a punto dei vaccini validi contro tutte le varianti del coronavirus viste finora”.

In che modo?

“Usando come antigeni più pezzi diversi del coronavirus. Attualmente usiamo la spike, e a ragione. Questa proteina infatti è il miglior bersaglio per gli anticorpi, per legarsi al virus e bloccare l’infezione. Ma Sars-Cov-2 è formato da 25 proteine diverse. Usarne altre, in aggiunta alla spike, potrebbe stimolare ancora di più le cellule T, oltre agli anticorpi. Potremmo rendere i nostri vaccini più efficaci contro le varianti. Anche perché le proteine diverse dalla spike mutano meno velocemente. Non hanno bisogno di evolversi per sfuggire agli anticorpi”.

I vaccini, in ogni caso, si stanno rivelando il sentiero giusto per uscire dalla pandemia?

“Per quanto riguarda gli anticorpi, sono in grado di generarne un numero nettamente superiore rispetto all’infezione naturale. Chi è guarito farebbe bene comunque a farne almeno una dose. Anche i vaccini che sembrano proteggere meno dal contagio con alcune varianti, poi, prevengono i casi gravi di malattia e i decessi nel 100% dei casi. Resta da capire quanto duri la loro protezione. Per questo non possiamo fare altro che aspettare. Ma non mi stupirei se durasse anche diversi anni”.