23 febbraio 2021 - 23:11

Le furbizie pericolose nella maggioranza

Il fronte degli «aperturisti» comincia a smarcarsi, con un occhio ai sondaggi e l’altro al malessere diffuso di una parte cospicua di Paese

di Carlo Verdelli

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Le furbizie pericolose nella maggioranza Illustrazione di Doriano Solinas
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Cominciamo bene, anzi malissimo. Appena undici giorni di vita e alla prima scelta neanche tanto strabiliante, mantenere per un altro mese le misure anti Covid pensate dal Conte II, il tanto invocato governo Draghi è già costretto a fare i conti con una minoranza riottosa, posto che sia davvero una minoranza: Lega, Forza Italia, Italia viva, unite nella lotta contro un rigore che ha stufato la gente, con volenterose sponde anche tra Pd e 5 Stelle. Capofila, Matteo Salvini pronto a innalzare la nuova bandiera, «io apro», con tanto di hashtag e il sorriso complice di chi si appresta a dettare condizioni in nome di tutti gli italiani, iperbole che gli è cara.

Non è una faglia da poco: la lotta alla pandemia è infatti l’architrave su cui costruire il rilancio del Paese. Piegare il virus per ripartire, doppia sfida epocale e strettamente connessa: per questo è stato chiamato Mario Draghi, per questo gli è stata concessa una fiducia quasi plebiscitaria, per questo lui ha accettato di giocarsi una più che rispettabile reputazione. Minare il banco prima ancora che sia stato apparecchiato non sembra il viatico migliore (come suona indecorosa, visto il momento, la consueta canea per i sottosegretari). Eppure, la tentazione dello sfascismo già si avverte, e andrebbe scongiurata prima che sia troppo tardi. Abbiamo davanti una parete con un grado di difficoltà estremo. Ingarbugliare le funi della cordata prima ancora di averla attaccata è candidarsi al fallimento. E in palio non c’è l’ebrezza di una vetta ma la messa in sicurezza, sanitaria ed economica insieme, di un Paese.

Gli unici che avrebbero diritto di contestare le scelte fondanti di questo governo sono le opposizioni manifeste: Fratelli d’Italia più scampoli di dissidenti in cerca di un senso e magari anche di un simbolo. Invece no, il fronte degli «aperturisti», che pure ha giurato lealtà al nuovo esecutivo giusto l’altro ieri, 13 febbraio, ha rotto anzitempo gli indugi e comincia a smarcarsi, con un occhio ai sondaggi e l’altro al malessere diffuso di una parte cospicua di Paese che vorrebbe archiviare la pandemia per decreto o che di fatto, infischiandosene di regole e senso civico, ha deciso che basta così, liberi tutti. Li vedi sulle piste da sci dove non dovrebbero stare, nello struscio delle vie centrali delle città, meglio se strette; oppure fuori dagli stadi di calcio, come prima del derby di Milano di domenica scorsa, con gruppi ammassati e ammalati di tifo, smascherati e impuniti. E vuoi non dare ascolto ai ristoratori, in protesta di categoria davanti a Montecitorio, con tanto di foto di carabinieri che si toglievano il casco in segno di solidarietà?

Legittima la sofferenza dopo un anno di sacrifici, e anche di confusione. Più che comprensibile la voglia così a lungo repressa di riprendersi la vita e anche la borsa, visto che i ristori non bastano e la crisi, allungandosi, si fa rovente. Peccato che governare sia cosa diversa dall’assecondare, quando non fomentare, gli umori infiammabili della piazza. E peccato che le condizioni generali, aggravate dalle varianti del virus e dalla complessa partita del reperimento dei vaccini, non giustifichino la più che umana aspirazione ad allentare le difese.

Brescia, per esempio, con quasi 4 mila nuovi positivi nell’ultima settimana, ha già i reparti Covid esauriti. Tre regioni registrano aumenti dei contagiati sopra i mille al giorno: Emilia Romagna, Lombardia e Campania. Proprio il presidente di quest’ultima, Vincenzo De Luca, ha ammonito sconsolato i suoi concittadini: «La sera dopo le diciotto, ognuno fa quel che vuole. Così siamo perduti. Da arancioni rischiamo di diventare rossi». Finora, con due dosi di vaccino, protezione standard, siamo riusciti a coprire soltanto il 2,2 per cento della popolazione. E i morti salgono, più di 96 mila ormai, come se si fosse svuotata di vita tutta Lecce o Pesaro o Cesena.

Non siamo soli in questa tempesta, il che impone scelte e comportamenti che si accordino con quelle dei Paesi ai quali ci legano accordi e sentimenti ribaditi con convinzione, e salutati da applausi calorosi dell’Aula, proprio nel discorso d’insediamento del neo presidente del Consiglio. La nostra cordata ha la bandiera europea come stemma. E la presidente di questa nostra Europa, Ursula von der Leyen, ha appena chiarito il quadro con disarmante franchezza: «Non siamo ancora arrivati al punto sperato nella lotta al virus. Dobbiamo trovare una risposta alle varianti e aumentare i vaccini con una produzione di massa». Sarà il primo argomento in agenda per il Consiglio di giovedì e venerdì a Bruxelles, dove Draghi si presenterà sapendo di avere alle spalle, su questo tema cruciale soprattutto, partiti in via di rapido sdoppiamento: in parte, fedeli alla linea appena sottoscritta; in parte, preoccupati di rosicchiare qualche intenzione di voto, carezzando ciascuno a suo modo lo scontento diffuso di chi scambia le restrizioni dettate da senso di responsabilità per non più accettabili limitazioni della libertà (personale o di corporazione che sia).

Altri dovrebbero essere, e sperabilmente saranno, i motivi di dissenso e anche di contrasto all’interno di un governo nato d’urgenza e per questo composto da un ventaglio di forze difficilmente conciliabili. Destra e sinistra hanno e continueranno ad avere visioni distanti sul piano dei valori e su quello dei diritti, sull’idea di democrazia e anche sulla pratica. Trovare una qualche sintesi sarà l’esercizio quotidiano più complicato per chi è chiamato a dirigere una prova d’orchestra di sapore felliniano. Ma sugli assi portanti dell’impegno che si è appena preso con il Paese dovrebbe prevalere, a dispetto di qualsiasi distanziamento politico, il senso di dovere civile esibito petto in fuori da tutti i contraenti del patto. C’è un virus che non sembra avere alcuna intenzione di ritrarsi, anzi sta tornando ad avanzare con mutazioni che colpiscono fasce d’età fino a ieri preservate: la nostra linea del Piave è questa. Non si tratta di essere ottimisti o pessimisti, rigorosi o indulgenti. È l’esame della realtà, dei numeri e delle curve, che detta tempi e regole.

Concedersi adesso furbizie, o manovre da facile incasso, fa venire in mente la favola di Esopo, quella dello scorpione che non sapeva nuotare e della rana generosa che accettò di portarselo sul dorso al di là del fiume. Anche i bambini sanno come va a finire. Durante la traversata, lo scorpione punge la rana che allibita gli chiede perché, visto che così annegheranno entrambi. Risposta: è la mia natura, sono fatto così. Applicata all’oggi italiano, non rassicura.

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