14 febbraio 2021 - 21:43

Francesco Sarcina: «Quando io e Clizia ci siamo lasciati parlavano di me come se fossi finito. Ai miei figli ho spiegato chi sono»

Il cantante delle Vibrazioni: «Legato al letto per disintossicarmi. Mi aiutò J-Ax». La famiglia: «Il giorno che mamma andò via, tornai a casa e vidi il buio. Fin lì, i miei litigavano, non c’erano soldi, ma erano i miei genitori»

di Candida Morvillo

Francesco Sarcina: «Quando io e Clizia ci siamo lasciati parlavano di me come se fossi finito. Ai miei figli ho spiegato chi sono»
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A pagina 2 della sua autobiografia, Francesco Sarcina si sta già facendo una striscia di coca nel bagno di un locale notturno. Glielo fai notare e lui: «Se è per questo, nella stessa pagina, e nello stesso bagno, sto anche già facendo sesso con una donna mai vista prima. Credo di aver passato più notti così che nel mio letto». Le 216 pagine scritte dal leader delle Vibrazioni sono un’epopea nera fra droga, sesso compulsivo, risse, alcol e rock ‘n roll. Dedicato a te, Vieni da me, Se, Dov’è sono solo alcuni dei successi che ha scritto, cantato, suonato.

Nel mezzo, c’è tutta una vita da romanzo, ci sono la mamma che lo abbandona da adolescente, gli avi «terroni» che includono un bisnonno omicida e un nonno con un proiettile in pancia, un’infanzia con spaccio tra le periferie milanesi della Barona e di Gratosoglio, la musica per non pensare, le band nelle cantine, il padre depresso che poi finisce in sedia a rotelle e lui che deve occuparsene. Ci sono le risse, una fuga all’estero e «il giorno in cui finirono un sacco di cose: un amore, un matrimonio, un’amicizia». Quel giorno lo aveva raccontato al Corriere nel luglio 2019, quando accusò la moglie Clizia Incorvaia di averlo tradito con Riccardo Scamarcio, suo migliore amico e testimone di nozze. «Nel mezzo» è il titolo del libro, edito da Sperling & Kupfer e in uscita il 16 febbraio con la prefazione di J-Ax, che l’ha aiutato a disintossicarsi, e la postfazione di Paolo Ruffini, che scrive «Francesco è bravissimo ad autodistruggersi volentieri, ma è anche bravissimo a rialzarsi».

Sarcina, perché raccontarsi in modo così crudo?
«Quando io e mia moglie ci siamo lasciati, in tv, si è scatenato un salottino di basso profilo. Tutti parlavano di me come se fossi solo la fine di quella relazione e non 25 anni di musica, di palchi sudati. Come se la mia vita non sia, invece, più intensa, drammatica, ricca di soddisfazioni e cadute. Mi ha fatto profondamente male perché sono il papà di due figli a cui devo qualcosa. Nina ha 5 anni e mezzo e temo il momento in cui avrà l’età per leggere su Internet certe cose sul padre. Tobia ne ha 14, l’ho visto soffrire. Gli ho voluto spiegare chi sono e che sono nato in ambienti dove c’erano violenza, droga e dovevi sopravvivere, sapendo picchiare e giostrartela. Gli ho detto: te lo racconto perché il silenzio è pericoloso. Mi ha detto che l’ho sconvolto nel senso buono. Dopo, ho pensato: quasi quasi, scrivo un libro».

Come entra la droga nella sua vita?
«I quartieri in cui sono cresciuto erano di un tale piattume che noi ragazzini guardavamo i più grandi con la voglia di stare dove accadeva qualcosa e lì c’erano solo droga e spaccare auto. Per strada, giocavamo a pallone, ma c’era sempre qualcosa da portare di qua o prendere di là. Quando fai il primo tiro di canna, pur di averne ancora, spacci e non solo. La coca, però, arriva molto dopo, quando già suonavo nelle cantine e il circolo di amici si è ingrandito e sa da chi arrivava? Non dai pezzenti come noi, ma dai figli di papà, quelli con la chitarra più bella, gli amplificatori più moderni».

Sua madre, a un certo punto, se ne va. Che ricorda di quel giorno?
«Sono tornato a casa e ho visto il vuoto, il buio. Fin lì, i miei litigavano, non c’erano soldi, papà si faceva i cavoli suoi, era sempre via, mamma aveva perso il figlio che aspettava ed era rimasta scioccata, ma comunque erano i miei genitori, erano le fondamenta della nostra casa modesta. Invece, quel giorno, loro crollano ed è come se si fosse aperta una voragine in cui sprofondava tutto. Il tempo si è fermato».

Si è fermato anche per suo padre?
«Lo ricordo sempre sul divano liso, stava lì immobile e cambiava la forza di gravità: entrare in casa era come entrare in un buco nero dove tutto si distorce. Per cui, stavo sempre fuori. E più stavo in giro, più tutto peggiorava. Ci hanno dato lo sfratto, ci hanno staccato la corrente per due anni. D’estate, come fai senza il frigo? Mangiavo solo pane e Nutella».

Con sua madre si è riconciliato?
«Anni dopo, mi ha chiamato dalla Puglia: voleva tornare a Milano. Sono andato a prenderla in macchina. Oggi che sono genitore anch’io, so che ha avuto un esaurimento nervoso, capisco come deve essersi sentita».

Quanta rabbia aveva dentro, da ragazzo?
«Ero arrabbiato con la vita e con le donne. Anche il sesso era cattivo, rabbioso. Preso il diploma, facevo il manovale, mi spaccavo la schiena, poi andavo in giro a suonare, rimorchiare e ammazzarmi di canne. Col tempo, alcol e coca hanno preso il sopravvento. L’alcol è la droga peggiore, la più subdola. Però non sono mai stato un tossico depresso, da paranoia. Forse, perché, avevo la musica: per me, scrivere canzoni è una medicina, una seduta di psicanalisi, mi mette a posto».

Com’è, adesso, essere sobri?
«Sento le voci, parlo con le piante e vedo gli spiriti: ho capito che la realtà si percepisce solo nella naturalezza di quello che sei. Ho capito che mi buttavo negli eccessi per staccarmi dalle sofferenze. E che poi mi dicevo che avevo bisogno delle sofferenze perché sulle sofferenze scrivo canzoni. Questo libro mi ha permesso di guardarmi a fondo come non avevo mai fatto».

Come si è disintossicato?
«Mi sono chiuso in casa per cinque mesi. Mi sono legato al letto. J-Ax mi ha suggerito di fare tutti gli abbonamenti a Netflix e simili. L’ho deciso mentre mi stavo separando, il giorno in cui mi hanno detto che forse avevo un tumore: ho sentito dentro così tanta violenza e cattiveria che non ho dormito. Quella notte, non ho visto la mia vita, ma quella dei miei figli. Mi sono detto: di questo passo non avranno un padre o, se lo avranno, starà su una sedia a rotelle per dieci anni, come è successo al mio. Allora, ho deciso di prendermi cura di me. E per fortuna, non avevo un tumore, ma solo un problema alla tiroide».

Oggi, è tutto alle spalle?
«È una lotta che va avanti, ma sono tranquillo. Non sono mai salito sul palco fatto, però sempre con gli strascichi dei giorni precedenti. Il primo concerto da perfettamente lucido è quello al Forum di Assago, nel marzo 2019».

Dal libro, sembra che, fin lì, le notti le ha passate a bere, drogarsi, rimorchiare.
«Fino a sei anni fa, prima di sposarmi, ero conciato così. Poi è arrivato l’amore, uscivo meno con gli amici e stavo più attento, ma tutto è tornato compulsivo quando le cose sono andate male con mia moglie, quando la sua gelosia mi ha risvegliato il demone. Era un continuo di “chi è quella?” e di “sei stato con lei?”. Quando mi sono separato, ho ripreso la vita di prima. Io le donne le dovevo uccidere, masticare, sputare. Ora, non è più così. Ci metto delicatezza, attenzione, poi magari mi innamorerò, accadrà».

Che cosa l’ha fatta cambiare?
«Mia figlia Nina mi ha fatto rinnamorare della femmina».

Col primo figlio, scoprendo che sarebbe diventato padre, era scappato in Messico.
«Di sua madre Diana ero innamorato, ma era un tira e molla, non mi sentivo pronto. Non presi nemmeno la valigia. Andai a Tulum, dove avevo un terreno. Buttai il telefono, sono stato due settimane su una palafitta. Venne a recuperarmi una mia ex messicana».

Perché temeva della paternità?
«Amo prendermi cura degli altri, ma avendo visto la mia famiglia crollare, ho avuto il terrore di costruire qualcosa che poi finisse».

Con Scamarcio si è chiarito?
«No e non mi interessa».

Quando ne parlò, disse che era un’altra sofferenza che le avrebbe fatto scrivere molte canzoni. È andata così?
«Ne ho scritte una valanga, complice la pandemia. Di nuovo, la scrittura mi ha salvato: mi ha proiettato nel bello delle cose quando torneranno belle. Ho scritto sull’amicizia, sulla nostalgia di una tavola in compagnia…».

Il libro è anche un catalogo di risse.
«È come se avessi la violenza nel Dna: un bisnonno era stato in carcere per omicidio per una storia di fascismo; il nonno materno, che si era preso una pallottola in pancia dal fratello, ha menato durissimo fino a 80 anni. Ho tenuto a bada la violenza come potevo, ma non sempre. A un concerto, ho picchiato uno spettatore che faceva gestacci: ero stanco, spremuto da manager senza ritegno. Una volta, ho pestato uno che molestava la fidanzata del mio batterista, l’ho rincorso, gli ho sbattuto la faccia per terra, gli ho tirato calci in faccia, mi è partita una furia del diavolo».

Distrusse la Mercedes dei suoi discografici al primo singolo.
«Finalmente, dopo anni di sacrifici, usciva Dedicato a te e, sul lato B, non volevano mettere Sani Pensieri. Dicevano che era troppo rock, spaventava le casalinghe. Andiamo a firmare il contratto e scopro che sul lato B avevano messo Dedicato a te fatto col mandolino. Prendo l’auto di mio padre, che fra l’altro aveva appena avuto un ictus, vedo la macchina del direttore marketing, accelero e le vado addosso».

La rabbia era anche per il male di suo papà?
«È finito in ospedale una settimana prima che Dedicato a te uscisse e facesse il botto. La rabbia sa quale è? Che mi aveva sempre dato del pirla e io non potevo fargli vedere che ce l’avevo fatta e dirgli: il pirla sei tu. La rabbia, per dieci anni, è stata che finalmente avevo successo ma, ogni volta che salivo su un palco, mi sentivo in colpa perché non ero accanto a mio padre invalido».

Perché il titolo «Nel mezzo»?
«Perché oggi la gente vive sui social, ma la vita vissuta è un’altra. Io ho fatto il Servizio civile lavorando coi bambini malati. La gente giudica, pensa di sapere tutto degli altri, ma fra quello che pensa di sapere di me e quello che gli arriva di me, nel mezzo, che cosa c’è?».

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