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Roberto Pazzi, cinquant'anni in versi

Nella sua Antologia personale insieme allo zar Nicola II, a Bonaparte, ad Antonio e Cleopatra, Giovanni e Giuda, Euridice e gli archetipi che ci guidano attraverso i miti e i testi sacri

di Matteo Bianchi

4' di lettura

Al Giulio Cesare di Shakespeare appartiene la sentenza per la quale «non è nelle stelle che è conservato il nostro destino, ma in noi stessi», e Roberto Pazzi sembra averlo distillato nelle poesie di un'esistenza intera, nonostante l'attrazione per l'astrologia e per l'influenza simbolica del cielo sulla sorte degli esseri umani.

Il condottiero che il bardo ha reso immortale, inoltre, potrebbe apparire tra le ombre che lo scrittore chiama in causa in Un giorno senza sera. Antologia personale 1966-2019 (La nave di Teseo 2020, pp. 293, euro 18), insieme allo zar Nicola II, a Bonaparte, ad Antonio e Cleopatra, a tutti quelli che la storia ha immortalato al pari di Giovanni e Giuda, di Euridice e degli archetipi che ci guidano attraverso i miti e i testi sacri.

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Nomi che ispirano l'immaginario occidentale da secoli: «Cenava Napoleone a Waterloo stasera, / dava gli ordini per la sveglia, / riceveva gli ultimi messaggi / compiva gesti che sapeva / sarebbero rimasti poi nella memoria. / Le sentinelle si preparavano al cambio». In Poesia come teatro della mente, l'arguto saggio firmato da Alberto Bertoni che accompagna il volume, l'autore viene indicato quale erede diretto di Bassani, Pasolini, Bevilacqua, Volponi e altri intellettuali eminenti, in quanto iniziatore della cosiddetta “narrativa postmoderna” e tra i pochissimi a comporre poesia quasi fosse «un irrinunciabile presupposto ideativo dell'impegno nel romanzo», ma di più, un grande semenzaio che si è dimostrato indispensabile a lui stesso e ai suoi lettori.

L'ossessione del tempo

Se Pazzi passa alla prosa poiché ha il coraggio di sostenere le sue ossessioni, come immaginare una fine differente per i Romanov in Cercando l'Imperatore (1985), in poesia si è affidato alla parola sin dalla giovinezza per redimere le vittime dell'oblio, ossia chi è stato sacrificato per la memoria collettiva e non ha potuto obiettare: «Mi confonde la storia / molti morti nel sonno / mi somigliano ed io ne abito / le lettere dei nomi / come il tre sta nel ventisette. / Né mi salvano quelle del mio, / spuntano in loro le sospette / mie paternità, ecco zar / bizzarro, poeta, re e pazzia».

Verso dopo verso mette al riparo i piccoli gesti abituali, le azioni che cotidie ripetiamo davanti allo specchio e che all'apparenza consideriamo insignificanti come «caricare gli orologi / alzare le tende / riaprire le finestre», ma che proprio nel loro ritorno rituale ci definiscono, ricuciono i nostri attimi e combattono il nulla tra un ricordo e l'altro. Un componimento armonico o anche soltanto un endecasillabo spezzato con premura risuonano al pari di un anello, arrivano a rivestirne il significato luminoso e a trasportarlo in un altrove indiscutibile da qualsiasi altro faber, trasmutandolo da talismano materiale a promessa immateriale di salvezza: «per gli oggetti si passa da questo mondo / al nulla, a colui che ora / porta alle dita i tuoi anelli, / che ha nei capelli il tuo pettine / e ai lobi i tuoi orecchini spaiati».

Non si tratta solo di tenere un taccuino, di una tenace propensione diaristica, ma di prendersi cura della vita con i versi, di sublimarla. La ricerca della bellezza e la necessità di focalizzarla intorno a sé colmano lo strappo tra il desiderio di eterno e il vuoto che si concretizza sotto i suoi occhi, di continuo, sebbene centimetri di polvere abbiano sostituito i suoi secondi, i cumuli delle sue ore. La scoperta di Proust e il suo raccontare un tempo smembrato hanno dato a Pazzi consapevolezza della frammentazione della memoria e del nostro cambiare inconsciamente negli anni, proprio com'è successo a Noteboom in visita a Père-Lachaise. Non a caso, l'antologia comincia con L'esperienza anteriore, titolo dell'esordio in libreria nel 1973, nonché concetto assimilato da Schopenhauer. Difatti la Recherche avvicina la concezione di Proust alla teoria del filosofo tedesco, all'idea dell'essere quale forza dinamica che trascende l'individuo, ma arriva a manifestarsi nella sua genialità o nella letteratura: «Non sarà che i nomi hanno un potere / che neanche i poeti più grandi / sanno calcolare? Non sarà che tutto quello che s'è scritto / s'è scritto da sé per l'incontro giusto dei suoni?»La grazia non deve scadere a eleganza, la bellezza non può precipitare nelle passioni. E lo scrittore s'impegna a mantenere l'equilibrio tra funzione estetica ed espressiva.

La lezione ereditata da Vittorio Sereni, che incoraggiò il poeta ancora adolescente a non distogliere lo sguardo dal varco dell'arte, si condensa in un quesito a cui mai Pazzi ha smesso di rispondere: «Dov'è l'uomo pienamente tale che abbia sapienza del mondo (della terra, intendo, e dei paesi e degli uomini) e che insieme sia in grado di sentirli come forme, e non come occasioni e pretesti, della propria vita interiore?»

In totale libertà

Dalla pagina bianca della sua Ferrara il poeta ha sognato spesso la Capitale, lasciandosi stupire di frequente dai suoi viaggi oltre l'orizzonte per poi tornare al pari di un re al suo placido esilio. Ad appoggiare la sua ferma posizione antistoricista, nel 1987, è stato Antonio Porta, ammettendo che della critica «alcuni lo avrebbero potuto condannare», ma che in realtà si è rivelata salutare: «Essere vissuti da chi non ha / la nostra immaginazione per vincere i nemici, / questa è la nostra partecipazione alla guerra, / il nostro posto, i nostri ordini erano questi». Sia la tendenza alla perfezione degli assoluti frutto di una benevola casualità, sia la convinzione che un'opera possa sconfiggere la rigidità di qualunque ideologia reclamando la propria autonomia, hanno protetto Roberto Pazzi dai condizionamenti dei potenti di turno, contrastando con l'inchiostro un'epoca nella quale la storia politica e la storia tecnologica danno il passo e dettano i limiti della società. D'altronde, «la libertà non sta nello scegliere tra bianco e nero, ma nel sottrarsi a questa scelta prescritta», parola di Adorno.


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