23 gennaio 2021 - 22:50

Marie Colvin e la guerra: «Il coraggio è non avere paura della paura»

Leggendaria corrispondente di guerra del Sunday Times, Marie fu uccisa in Siria il 22 febbraio 2012. Scrivere dal fronte non era una professione, era la vita stessa, con una regola: non avere paura di avere paura, come spiegò in questo discorso del 2001

di Marie Colvin

Marie Colvin e la guerra: «Il coraggio è non avere paura della paura»
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Marie Colvin, leggendaria corrispondente di guerra del Sunday Times, fu uccisa in Siria il 22 febbraio 2012 durante l’assedio di Homs. Aveva coperto i i conflitti più feroci del pianeta. Portava una benda sull’occhio sinistro, colpito dalla scheggia di una granata. Scrivere dal fronte non era una professione, era la vita stessa, con una regola: non avere paura di avere paura, come spiegò in questo discorso del 21 ottobre 2001, pronunciato in occasione del conferimento del Premio Donna dell’Anno

«Venire premiata come Donna dell’anno è un grande onore - fosse soltanto perché mi ha permesso di conoscere Ellen MacArthur, che ha realizzato l’unico grande sogno della mia vita: fare il giro del mondo in barca. E Pam Warren, la cui esperienza incarna nel modo più puro il concetto alla base del premio: il coraggio. Sono tempi difficili per i corrispondenti di guerra (e non parlo neppure di quelli costretti a rimanere in panchina per ragioni mediche, come la sottoscritta). La necessità di riferire in modo obiettivo sulle cose che succedono al fronte non è mai stata più evidente di oggi. Siamo impegnati in una guerra che avrà ricadute sulla vita di noi tutti, eppure non abbiamo quasi notizie su quello che succede dall’altra parte della barricata».

«Non ci sono giornalisti occidentali nell’Afghanistan dei talebani. E quanto sia rischioso andare sul posto per cercare di ottenere informazioni di prima mano è stato dimostrato dall’esperienza di Yvonne Ridley, che ha rischiato grosso di pagare con la vita.
Fino a che punto è giusto esporsi al pericolo? Dove corre il discrimine tra il coraggio e la temerarietà?
Anch’io ho rischiato di non farcela. Lo scorso aprile sono stata colpita dalle schegge di una granata lanciata da un militare dell’esercito srilankese. Ero penetrata nella zona tamil, nel Nord dell’isola, per scrivere delle 500.000 persone che il governo sta cingendo d’assedio e della difficile situazione in cui si trovavano. Niente medicinali, niente cibo, una guerra della quale nessuno parla, ma che pure aveva strappato 340.000 di quelle persone alle loro case, facendone dei profughi».

«FARE IL CORRISPONDENTE DI GUERRA SIGNIFICA... SCRIVERE DELL’ESPERIENZA DELLE PERSONE CHE VIVONO SULLA PROPRIA PELLE LE RICADUTE PIÙ IMMEDIATE DELLA GUERRA, LE PERSONE CHE VENGONO MANDATE A COMBATTERE E QUELLE CHE CERCANO SOLO DI SOPRAVVIVERE»

Marie Colvin durante uno dei suoi reportage in zona di guerra (foto Getty Images) Marie Colvin durante uno dei suoi reportage in zona di guerra (foto Getty Images)

«Da sei anni il governo negava ai giornalisti l’autorizzazione a entrare, così l’ho fatto per vie clandestine e ho perso la vista all’occhio sinistro. Valeva la pena di correre un rischio del genere? È una domanda brutale, e ci ho riflettuto per un bel pezzo. All’epoca ero convinta che sì, ne fosse valsa la pena, e tendo a pensarlo anche oggi. Per farla breve: non si può scrivere di guerra e farlo come si deve senza esporsi a degli imprevisti. Fare il corrispondente di guerra significa visitare luoghi straziati dal caos, dalla distruzione, dalla morte, dal dolore, e cercare di rendere testimonianza di quello che si vede. E non dico scrivere dei giocattoli in dotazione ai combattenti (ho sempre fatto fatica a distinguere un MiG da un Tornado o un cannone da 105 millimetri da un calibro 155, specialmente quando mi sparano addosso): a interessarmi è l’esperienza delle persone che vivono sulla propria pelle le ricadute più immediate della guerra, le persone che vengono mandate a combattere e quelle che cercano solo di sopravvivere».

«LA REALTÀ SUL TERRENO È CAMBIATA MOLTO POCO NEL CORSO DEGLI ULTIMI CENTO ANNI. CRATERI. ABITAZIONI CARBONIZZATE. DONNE CHE PIANGONO UNA FIGLIA O UN FIGLIO. SOFFERENZA»

«Con buona pace dei video e dei briefing del Pentagono o della NATO che vi mostrano in televisione, la realtà sul terreno è cambiata molto poco nel corso degli ultimi cento anni. Crateri. Abitazioni carbonizzate. Donne che piangono una figlia o un figlio. Sofferenza. Quando si fa il mio mestiere non c’è il rischio di rimanere disoccupati. Scrivere di guerra è una cosa difficile. Di Cecenia, per esempio, non si poteva parlare dalla Russia, per cui sono penetrata in Cecenia dalla Georgia per documentare il bombardamento indiscriminato dei civili. Sono vissuta tra le montagne insieme ai combattenti musulmani: quando ho raggiunto a piedi la loro base, poco più di una baracca con una sola stanza e un unico letto di sei metri, il comandante ha rassicurato i suoi devoti guerrieri musulmani: «Qui non c’è nessuna donna, solo una persona che scrive sui giornali». Sono andata di villaggio in villaggio. Ricordo ancora un uomo anziano riverso sul pavimento di una cantina: aveva il cranio sfondato e il cervello che colava fuori, ma respirava ancora. Sua moglie sedeva lì accanto, tenendogli la mano. Sapeva che sarebbe morto: non c’erano dottori né medicinali e ben presto i caccia russi sarebbero tornati all’attacco, eppure lei voleva restare lì, accanto a lui, per accompagnare il suo ultimo respiro. Questo è coraggio».

Marie Colvin e la guerra: «Il coraggio è non avere paura della paura»

Essere uno scudo umano a Timor Est

«Una delle mie regole, quando scrivo dal fronte, è questa: non avere paura di avere paura. È particolarmente importante per una donna, perché si è spesso in compagnia di uomini che fanno di tutto per sfoggiare la loro virilità e ti scrutano alla ricerca dei primi segni di codardia. In Cecenia sono rimasta intrappolata in un campo innevato mentre gli aerei russi tornavano a ondate per bombardarci, inesorabili. Dopo ore di quel trattamento un guerrigliero ceceno ha acceso un fuoco, dichiarando con una spacconeria che non ha mancato di impressionare i suoi commilitoni: «Meglio morire al caldo che campare nel gelo». Io l’ho rimproverato: «Spegni quel fuoco, imbecille». E tutti mi hanno presa per una pusillanime. È solo che io avrei preferito non lasciarci le cuoia.
Il ricordo più vivido della missione a Timor Est sono gli sguardi terrorizzati che mi scoccavano tutte le donne e tutti i bambini accampati sotto le palme quando uscivo nel cortile della struttura ONU, assediata dai miliziani. Sapevano di avere una chance di sopravvivere soltanto finché fossi rimasta anch’io. Ero una sorta di scudo umano. Tutto intorno al complesso infuriavano miliziani armati di machete e fucili: potevano assaltare la cinta da un momento all’altro».

L’Onu che abbandona donne e bambini

La locandina del film tratto dalla storia della vita di Marie Colvin
La locandina del film tratto dalla storia della vita di Marie Colvin

«L’ONU aveva deciso di evacuare, abbandonando alla loro sorte 1500 donne e bambini. Anche tutti i miei colleghi avevano deciso di prendere l’ultimo volo. Eravamo rimaste solo io e due giornaliste olandesi. Io avevo deciso di rimanere e ho avuto uno scambio a dir poco irritante con il mio caporedattore agli esteri. «Come sarebbe a dire che tu sei rimasta mentre tutti gli altri sono ripartiti?», ha domandato. «Boh. Io resto». «E sentiamo... perché gli uomini invece se ne sono andati?». Esasperata, gli ho risposto: «Non ci sono più quelli di una volta, si vede». Devo rendergli atto (anche se un po’ me ne vergogno) di avere stampato nero su bianco quelle mie parole. Da allora è difficile trovare qualcuno con cui uscire la sera. Sono rimasta e ho fatto sapere a tutti i miei contatti — la CNN, la BBC, la televisione australiana — che l’evacuazione disposta dall’ONU equivaleva a una condanna a morte per quelle persone, donne e bambini. Le donne che non potevano più entrare nella sede ONU gettavano i loro neonati oltre il muro di cinta, in mezzo al filo spinato, pur di sottrarli alle grinfie della milizia. A distanza di tre giorni l’ONU cambiava idea e organizzava l’evacuazione di tutti e millecinquecento rifugiati. In quel caso valeva decisamente la pena di rischiare».

Afghanistan: la scelta di vedere di persona

«La guerra in Afghanistan mi preoccupa. Tanto per mettere le cose in chiaro, non sono di quelli che “Sì, ma...”. Detesto senza mezzi termini le cose che Osama bin Laden simboleggia. Detesto quello che fanno i talebani. Però questa guerra la stanno combattendo a nome nostro, e quindi ci riguarda tutti quanti. Spiegare qualcosa, cercare di aiutare la gente a capire come funziona, non vuol dire legittimare un conflitto. Mi piacerebbe vedere giornalisti su entrambi i fronti — quantomeno sarebbe un modo per ricordare a chi governa e a chi comanda le rispettive responsabilità. Per citare Martha Gellhorn, una delle più indomite corrispondenti di guerra della sua generazione: «Non credete mai a un governo, neppure all’ultimo dei funzionari, non credete a una sola parola che esce loro di bocca; sorvegliate con la massima diffidenza tutto quello che fanno». Quando sento il Pentagono annunciare che i missili americani hanno annientato il «centro di comando e controllo» dell’aeroporto di Kandahar, o cose del genere, mi spavento. Perché io ci sono stata: c’è solo una casetta di fango, e dentro c’è un tizio con un telefono che può solo ricevere e non chiamare. Andare sul posto di persona per vedere che cosa succede è l’unico modo per giungere alla verità. Non è un modo infallibile: al massimo è una brutta copia della storia che si scriverà un giorno. Ma per gli storici il tempo c’è sempre. Come giornalista, invece, puoi essere testimone di ingiustizie colossali, hai l’opportunità di far sapere in giro che cosa è successo».

La sfida: conservare fiducia nel genere umano

«Il coraggio, secondo me, non è questa cosa immensa e definitiva. Quando parto per il fronte non mi dico: «Adesso tocca a te, mostrati coraggiosa». Primo, il mondo non gira intorno a me; secondo, quello non è coraggio, è spacconaggine. Il coraggio è una virtù secondaria. Quando una giornalista lavora in un teatro di guerra le capita di doversi «mostrare coraggiosa», e non una volta sola, perché scrivere dal fronte significa andare in posto dove puoi lasciarci la pelle, dove c’è gente che muore ammazzata, significa muovere un altro passo, e poi ancora uno, e poi un terzo, anche se stai morendo di terrore. Il tuo compito è riferire con tutta la sincerità di cui sei capace, dire quello che hai visto e farlo mettere agli atti. E informazioni di quel genere, in guerra, non si ottengono senza andare nei posti dove la gente si becca le pallottole, e dove sparano addosso anche a te. La cosa davvero difficile è conservare una briciola di fiducia nel genere umano, scommettere sul fatto che a qualcuno importerà».

CARTA D’IDENTITÀ


La vita — Marie Colvin è nata il 12 gennaio 1956 a Oyster Bay, nello Stato di New York. Si è diplomata a Yale e nel 1986 è diventata corrispondente dal Medio Oriente per il Sunday Times. Ha raccontato i conflitti cruciali del nostro tempo dalla Cecenia a Timor Est. Ha perso la vista dell’occhio sinistro nel 2001 durante la guerra in Sri Lanka. Nel 2011 ha intervistato Gheddafi. È morta nel 2012 mentre raccontava l’assedio di Homs in Siria.
Il libro —«In prima linea» (Bompiani) raccoglie tutti gli articoli e i reportage dal fronte di Marie Corvin: Iraq, Siria, Libia, Kosovo, Etiopia. Il volume fa parte della collana Munizioni diretta da Roberto Saviano

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