20 gennaio 2021 - 19:42

Da Achille a Bridgerton: se la storia è stravolta dal politicamente corretto. E il caso (diverso) del Lupin nero

Dal whitewashing all’altrettanto assurdo blackwashing: ovvero mettere sullo schermo personaggi neri che storicamente dovrebbero essere bianchi.

di Renato Franco

Da Achille a Bridgerton: se la storia è stravolta dal politicamente corretto. E il caso (diverso) del Lupin nero
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Un senegalese alto un metro e novanta. A leggere i libri di inizio Novecento di Maurice Leblanc si farebbe fatica a immaginarsi così Arsenio Lupin, ma nel 2021 — società multietnica, la Francia campione del mondo rappresentata dal talento di Mbappé — la scelta diventa tanto coerente quanto criticata da chi vede un’opportunistica volontà di compiacere il politicamente corretto piuttosto che un reale afflato di parità di diritti e uguaglianza universale. Del resto il processo è in atto. L’Academy di Hollywood ha stabilito nuovi requisiti per favorire «l’equa rappresentanza di origine, genere, orientamento sessuale e persone con disabilità»: dal 2024 i lungometraggi dovranno rispettare i nuovi standard per essere candidabili all’Oscar come miglior film.

E così i colossi internazionali dell’intrattenimento si sono già adeguati per evitare di essere tacciati di non essere al passo con i tempi e i cast di film e serie sempre più spesso si allargano in rappresentanza di tutte le etnie. Peccato che certi principi — impeccabili sulla carta — nell’applicazione portano a paradossali cortocircuiti. Così dal whitewashing si è passati all’altrettanto assurdo blackwashing: ovvero mettere sullo schermo personaggi neri che storicamente dovrebbero essere bianchi. Certo, la fiction non è un libro di storia, ma l’impressione è che la scelta sia motivata soprattutto da ragioni di marketing etico. Così è successo di vedere un Achille di colore (David Gyasi) nella miniserie Troy - La caduta di Troia e una valchiria nera (Tessa Thompson) in Thor: Ragnarok. La summa del «famolo strano» l’ha raggiunta però Bridgerton, ambientata all’inizio del 1800 in Inghilterra, dove la regina britannica è afroamericana e la corte pullula di duchi e conti di colore. L’effetto è straniante, la verità storica (una società classista bianca) viene stravolta in una realtà fantascientifica (una società classista multirazziale). E la sensazione è quella di entrare in uno dei bar spaziali di Guerre Stellari piuttosto che alla corte della regina Carlotta di Meclemburgo-Strelitz.

La nuova serie di Netflix invece gioca sull’equivoco. Omar Sy non è Lupin, ma si ispira a lui (e il titolo stesso è fatto apposta per indurre lo spettatore a credere che sia così). In un gioco di specchi e suggestioni, Lupin racconta la storia del senegalese Assane Diop (interpretato dal francese Omar Sy) la cui vita viene sconvolta quando suo padre si suicida dopo essere stato accusato del furto della collana di Maria Antonietta. Venticinque anni dopo Assane userà il libro Arsène Lupin, ladro gentiluomo come ispirazione per vendicare suo padre. Insomma si identifica talmente in Lupin da diventarne lui stesso l’incarnazione. «La nostra intenzione era anche evidenziare il lato sociopolitico della storia che era già presente nel lavoro di Maurice Leblanc — spiega Omar Sy —. Abbiamo creato un personaggio radicato nella società odierna e nella modernità, che in più aveva caratteristiche uniche».

Prodotta in Francia, la serie ha puntato su uno dei suoi attori più internazionali, in grado di raggiungere una popolarità globale grazie al fenomenale successo di Quasi amici, commedia politicamente scorretta sulla disabilità (era solo 10 anni fa ma si poteva osare quanto oggi è diventato inosabile) che raccontava l’amicizia tra un ricchissimo uomo d’affari tetraplegico e il suo badante che in realtà voleva solo ottenere il sussidio di disoccupazione. E Lupin è sulle stesse tracce: sceneggiatura non particolarmente sofisticata, ma ottima serie «spegni cervello», Netflix ha dichiarato che raggiungerà 70 milioni di famiglie entro il primo mese, superando così sia Bridgerton sia La regina degli scacchi (anche se vale la pena sottolineare che la società di Reed Hastings e Ted Sarandos non è particolarmente trasparente sui numeri e considera una «visualizzazione» qualsiasi account che guardi un programma per più di due minuti).

Un ruolo che per un francese è il massimo: «Se fossi britannico avrei detto James Bond, ma da francese scelgo Lupin». Ladro gentiluomo con la capacità di rubare una collana supersorvegliata al Louvre o di entrare e uscire dal carcere a suo piacimento grazie a una capacità trasformista unica, contrariamente al Lupin tradizionale il personaggio mantiene sempre il suo aspetto naturale, senza trucco. Si maschera rimanendo se stesso. «Volevamo evitare di esagerare, soprattutto rispetto alle precedenti versioni del personaggio. Il nostro obiettivo era farlo “sparire” ogni volta facendogli vestire i panni di una certa classe sociale. Per esempio deve semplicemente fare lo spazzino per diventare invisibile agli occhi degli altri. Al giorno d’oggi l’abito fa davvero il monaco».

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