Era l’ultimo comunista che aveva lavorato nella segreteria del Pci a fianco di Palmiro Togliatti, Giorgio Amendola e Pietro Ingrao. Era una delle ultime memorie viventi degli anni ruggenti del più grande partito comunista d’ Occidente. Era diventato negli ultimi anni uno dei commentatori più liberi e disincantati della politica odierna. Emanuele Macaluso era tante cose ma la sua identità più peculiare era quella di essere un comunista libertario e anticonformista in un ambiente, quello comunista, dove prima dei pensieri personali c’era la “linea” del partito. 

Un’attitudine libertaria che gli proveniva da una vita spericolata.  Da ragazzo finì in carcere per amore; quando l’Italia era guidata dal Duce volle prendere la prima tessera comunista a 17 anni; i mafiosi gli tirarono addosso una bomba durante un comizio nella sua Sicilia. Da anni trascorreva un lucidissimo crepuscolo nelle due stanze della sua casa romana nel popolare quartiere di Testaccio, dove i libri di una vita, accatastati nel disordine di chi li aveva effettivamente letti, si mischiavano con i giornali passati al setaccio dalle 6,30 del mattino. 

Raccontò di recente in una bella intervista a “La Stampa”: «Vivevamo a Caltanissetta, ero figlio di un manovale delle Ferrovie e avevo pregato quasi in ginocchio mio padre di mandarmi al ginnasio, ma lui mi disse: “Siete tre figli maschi, guadagno 500 lire al mese, non me lo posso permettere”. E così mi iscrissi all’istituto minerario, lo stesso dei miei fratelli, per poter ereditare i loro libri. A 16 anni mi ammalai di tubercolosi, sputavo sangue e vedendo che quasi tutti uscivano morti dal sanatorio, sognavo di poter vivere sino a 30 anni! Nessuno osava avvicinarsi al tubercolosario, ma un giorno venne un mio amico e mi disse: “Emanuele, io devo andare militare e poiché conosco i tuoi sentimenti ti dico che se vuoi continuare la battaglia contro il fascismo, l’unica organizzazione è quella comunista» 

Macaluso accettò e nella cellula comunista clandestina conobbe un ragazzo che si chiamava Leonardo Sciascia, «finché un giorno, arrivò fino a Caltanissetta in gran segreto un milanese che si chiamava Elio Vittorini. Stavano per sbarcare gli Alleati e lui, mandato dal Pci da Milano con una valigia piena di pubblicazioni clandestine, passò tutta la notte nella sala d’aspetto della stazione, “affamato e paralizzato dal freddo”, come scrisse Sciascia. Ma il pericolo era dover cercare una persona che non conosceva e un errore poteva portare al carcere. Fu anche così che il Pci divenne il Pci». 

Negli anni del dopoguerra Macaluso guida per diversi anni la Cgil, in anni nei quali per fare il sindacalista si rischiava la pelle e molti sindacalisti socialisti e comunisti furono uccisi. Nel settembre 1944 Macaluso segue Girolamo Li Causi a Villalba, per sfidare il boss Calogero Vizzini, in un paese nel quale un comunista non aveva mai parlato. Li Causi salì su un tavolo della piazza, gli spararono subito addosso e il dirigente comunista restò zoppo per il resto dei suoi giorni. 

Macaluso ebbe un ruolo negli anni della solidarietà nazionale quando il Pci accettò di appoggiare molto a malincuore un governo Andreotti. Ha raccontato Macaluso: «Ricordo il giorno del voto: entrai nell’ufficio di Berlinguer e gli dissi: non sosteniamo Andreotti e così prepariamo una soluzione Moro. Lui mi rispose: sei un pazzo! Moro gli aveva detto: o Andreotti o non se ne fa nulla. Serviva per tranquillizzare tutta la Dc e gli Stati Uniti». E quando ripensava alla storia del Pci, Macaluso rimpiangeva un processo decisionale che appariva opaco ma che lui rivendicò come democratico: «Il Pd ha una direzione di 150 membri e i lavori finiscono in tempo per i Tg. Per anni la direzione del Pci fu composta da 19 compagni, si cominciava alle 9 del mattino e si finiva alle 9 di sera e a volte si proseguiva anche il giorno dopo. Una volta ricordo che Amendola avanzò un’obiezione e Togliatti gli rispose: “Tu devi viaggiare un po’ di più”. Certo, c’era il centralismo democratico, ma quando fummo in dissenso con Berlinguer io fui mandato a dirigere l’Unità, Napolitano fu presidente dei deputati e Chiaromonte dei senatori. Allora esisteva un modo di concepire la lotta interna che non è paragonabile a quel che accade oggi». 

Negli ultimi tempi aveva assunto un atteggiamento critico nei confronti della collaborazione del Pd con i Cinque stelle che riteneva subalterna: «Nel primo dopoguerra si affermò rapidamente l’Uomo qualunque, col simbolo della pressa che opprimeva il cittadino. Le analogie? Erano molto forti nel Mezzogiorno, si esprimevano con il “vaffa”, svalutavano il passato. Ma allora si sviluppò una forte lotta sociale e politica, polarizzata sui grandi partiti, Dc da una parte, Pci e Psi dall’altro. Il fenomeno qualunquista si esaurì: totalmente cancellato». 

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