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Martedì 24 novembre
editorialistadi Andrea Marinelli
Non c'è stata una concessione formale, la telefonata riturale con cui il candidato sconfitto ammette di aver perso le elezioni e lascia la strada libera all'avversario, ma la transizione dall'amministrazione Trump a quella Biden è ufficialmente cominciata nella notte. Se nel 2008 il senatore repubblicano John McCain ammise «con cortesia» - parole del rivale Barack Obama - che «l'America aveva parlato chiaramente», e quattro anni fa Hillary Clinton aspettò il giorno successivo per accettare pubblicamente, e a malincuore, una sconfitta dolorosa, Donald Trump ha preferito tacere, lasciando tuttavia che gli ingranaggi della transizione cominciassero a girare tre settimane dopo le elezioni.

Joe Biden, intanto, ha cominciato a formare la sua squadra, che Alessandra Muglia ha raccolto in questo articolo. Come scrive oggi Giuseppe Sarcina da Washington, con le sue nomine il presidente eletto sta effettuando una restaurazione, un ritorno alle competenze dopo l'era travagliata di Trump: c'è Tony Blinken, il nuovo segretario di Stato di cui vi abbiamo parlato ieri e di cui oggi Paolo Valentino fa un ritratto molto personale; ci sono Janet Yellen e John Kerry, che ci descrive sul sito Massimo Gaggi da New York; c'è Avril Haines, di cui Marilisa Palumbo ci racconta la vita da romanzo.

Intanto, ci informa Guido Santevecchi da Pechino, in Cina il Partito-Stato ha definitivamente sconfitto la povertà.

Buona lettura!

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1. La restaurazione di Joe Biden
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Il presidente eletto Joe Biden fotografato ieri a Wilmington, durante un meeting virtuale con la conferenza dei sindaci (foto Afp/Chandan Khanna)
editorialista
di Giuseppe Sarcina
corrispondente da Washington

La prima infornata di nomine di Joe Biden è piena di apparenti novità. La prima donna al Tesoro, Janet Yellen; il primo latino alla Sicurezza Interna, il cubano Alejandro Mayorkas; ancora la prima donna a capo della Direzione della National Intelligence, Avril Haines. In realtà Biden sta costruendo una squadra in piena continuità con il suo passato, con candidati pescati interamente all'interno del perimetro politico e culturale del doppio mandato di Barack Obama. La stessa Yellen fu posta a capo della Federal Reserve dal primo presidente afroamericano della storia. Sono tutte figure di livello assoluto, che svettano rispetto alla media dei ministri e consiglieri trumpiani. Su questo non ci possono essere discussioni. La prova? Mettete a confronto il curriculum di Steven Mnuchin e quello di Janet Yellen. Oppure quelli di Blinken e Pompeo. O Mayorkas con Jared Kushner che aveva il compito, tra le tante cose, di riformare la politica di immigrazione.

Quella di Biden è una restaurazione, nel senso di un ritorno alle competenze, alle risorse delle istituzioni. Una lista così ha molte probabilità di passare senza perdere troppe piume al vaglio di un Senato controllato dai repubblicani. Tuttavia ci sono anche dei rischi. C'è naturalmente il tema politico della sinistra radicale. Ancora non sappiamo se Biden abbia in serbo qualche compensazione per Bernie Sanders o Elizabeth Warren. Ma ciò che colpisce maggiormente è che per ora non si veda alcuna apertura alla società civile, ai tanti movimenti che dal 2018 a oggi hanno contribuito a costruire l'altra America, quella che ha mandato a casa, sia pure a fatica, Donald Trump.

Al momento non c'è traccia delle sindache (Atlanta, Washington, Chicago), tanto celebrate nella primavera di Black Lives Matter; non c'è traccia delle donne impegnate nel MeToo; non c'è traccia dei giovani che hanno marciato contro le armi o per la difesa dell'ambiente. Non c'è traccia di Alexandria Ocasio-Cortez che ha presentato il Green New Deal. C'è, invece, il settantaseienne John Kerry, alla sua quarta o quinta vita politica, ora nelle vesti dell'ecologista. Scopriremo tra pochi giorni se nel governo di Biden, finora molto washingtoniano, entrerà anche un po' di aria nuova.

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2. La (finta) concessione di Donald Trump avvia la transizione
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Il presidente Trump durante la conferenza stampa del 20 novembre alla Casa Bianca (foto Afp/Mandel Ngan)
editorialista
di Massimo Gaggi
da New York

Non è la concessione della vittoria a Biden, ma il via libera dato dalla Casa Bianca all'agenzia federale Gsa per l'avvio delle procedure della transizione è un passo che ci si avvicina molto: probabilmente il più vicino che verrà fatto da un presidente che non accetta di dichiararsi sconfitto e che dichiara di voler continuare a contestare il risultato del voto del 3 novembre, convinto che alla fine sarà lui a spuntarla. In realtà gli ultimi tre giorni sono stati un calvario per Donald Trump: prima la bellicosa conferenza stampa di Rudy Giuliani e degli avvocati superstiti del team presidenziale, che voleva essere l'annuncio di una guerra senza quartiere contro Biden e invece si è trasformata in un boomerang. Poi i leader politici repubblicani del Michigan che, convocati alla Casa Bianca, hanno respinto l'idea di ignorare il voto popolare mandando a Washington 16 Grandi elettori scelti dal Parlamento dello Stato.

Quindi il crescente malessere del mondo politico conservatore per un ostruzionismo del presidente nei confronti di Biden che cominciava a ricordare le elezioni-farsa di certi regimi illiberali: un mugugno sotterraneo fatto emergere da Carl Bernstein, il giornalista «eroe» del Watergate, che ha pubblicato una lista di 21 senatori repubblicani (su 53) che gli avevano personalmente confessato di considerare inaccettabile l'atteggiamento di Trump. Infine la rivolta del mondo produttivo e della finanza con Biden riconosciuto come nuovo presidente non solo da Wall Street (mai in rapporti distesi con Trump) e dai Ceo (prevalentemente conservatori) dei grandi gruppi industriali aderenti alla Business Roundtable (una specie di Confindustria), ma anche da Stephen Schwarzman, capo del gruppo finanziario Blackstone, da molti anni grande amico personale e consigliere di Trump.

Ieri altre delusioni per Trump quando il Michigan ha ratificato la vittoria del candidato democratico mentre dalla Pennsylvania sono arrivate nuove sentenze avverse ai ricorsi della Casa Bianca. Alla fine The Donald ha autorizzato Emily Murphy, la fedelissima che lui stesso aveva messo alla guida della General Services Administration, ad avviare le procedure della transizione: Biden avrà accesso ai fondi federali, alle informative riservate che i servizi segreti trasmettono quotidianamente alla Casa Bianca e potrò usare gli agenti dell'Fbi e delle altre strutture investigative per scavare nelle vite degli esponenti democratici che il nuovo presidente vuole portare con sé, al governo. Alla fine il presidente ha ceduto alle pressioni che gli arrivavano ormai da ogni direzione, anche da una parte della sua famiglia.

La decisione, in realtà, non l’ha presa lui. È stata proprio Murphy a dare il via alla transizione, dopo aver osservato «gli sviluppi recenti sulle battaglie legali e la certificazione dei risultati»: lo ha rivelato lei stessa in una lettera indirizzata al presidente eletto Biden e ottenuta da Cnn. «Ho preso la mia decisione indipendentemente, basandomi sulla legge e sui fatti disponibili», ha scritto Murphy, spiegando di non aver ricevuto pressioni e di non aver voluto scavalcare il processo costituzionale.

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3. Perché il presidente ha aspettato così a lungo?
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Il presidente Trump fotografato il 20 novembre alla Casa Bianca (foto Afp/Mandel Ngan)

(Massimo Gaggi) Perché Trump ha resistito così a lungo e cosa farà ora che ha capito che la sua avventura alla Casa Bianca sta per terminare? Chi conosce bene lui e la sua situazione finanziaria sostiene che il presidente repubblicano ha continuato a tenere duro oltre ogni limite ragionevole anche perché impegnato a rastrellare fondi per finanziare i ricorsi giudiziari e i riconteggi dei voti. In questi giorni la sua campagna finanziaria è divenuta ancora più martellante di quella condotta alla vigilia del voto: su Twitter i suoi 89 milioni di follower sono stati bombardati da continue richieste di soldi firmate dallo stesso Trump, dal suo vice Mike Pence e anche dai figli Eric, Donald Jr. e Ivanka.

I problemi finanziari (insieme ai guai giudiziari) sono destinati a condizionare a lungo l'attività di Trump. Se sono fondate le ricostruzioni del New York Times sulla scarsità delle risorse liquide a sua disposizione, ben presto il presidente uscente dovrà trovare 400 milioni di dollari per rimborsare rate in scadenza di prestiti contratti per finanziare la sua attività di costruttore.

Secondo inchieste di Business Insider e del Washington Post, Trump sta studiano vari modi di usare il suo brand, valorizzato dalla sua attività politica, per fare soldi. In particolare vorrebbe offrirsi a imprese e associazioni per conferenze a pagamento, vorrebbe pubblicare libri di memorie e sta pensando anche di introdurre un biglietto d'ingresso di entità modesta (5 o 10 dollari) per i fan che — è convinto — continueranno ad accorrere ai rally che l'ormai ex presidente continuerà a organizzare in varie parti del Paese.

4. Il mondo di Tony Blinken, che «non si mette in ordine da solo»
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Il prossimo segretario di Stato Antony Blinken in una foto del 2015 (foto Afp/Stephane De Sakutin)
editorialista
di Paolo Valentino
corrispondente da Berlino

Conobbi Tony Blinken a Berlino nel giugno 2000, durante una visita di Bill Clinton in Germania. A presentarmelo fu un amico, Sidney Blumenthal, allora consigliere del presidente. Blinken non aveva neppure 30 anni ed era già il primo speechwriter di politica estera di Clinton. Trascorremmo un pomeriggio a casa di Bill Drozdiak, corrispondente del Washington Post dalla Germania. Mi colpirono la chiarezza cartesiana dei suoi ragionamenti di politica estera, la capacità di non perdere mai di vista il quadro strategico mondiale e la sua semplicità di modi. Scoprimmo di avere un amico in comune, Jay Carney, ex corrispondente da Mosca di Time Magazine ai tempi del crollo dell'Urss, che poi sarebbe diventato portavoce di Barack Obama alla Casa Bianca.

Ma mi sorprese anche la sua curiosità intellettuale che lo spinse a chiedermi cosa succedeva nella scena musicale berlinese. Tutta, quella classica e quella tecno, Claudio Abbado e Doktor Motte, il dj della Love Parade. Lo rividi pochi mesi dopo a Washington, in dicembre, durante la transizione dall'Amministrazione democratica a quella di George W. Bush. Mi ricevette nel suo ufficio alla Casa Bianca. Era molto meno pessimista di Blumenthal, che vedeva l'avvento dei repubblicani come una catastrofe. «La politica estera americana ha una continuità, i fondamentali non sono in discussione», mi disse.

Poi successe l'11 settembre e tutto cambiò. Vennero l'Afghanistan e soprattutto l'invasione dell'Iraq. Anni dopo, incontrandolo a Monaco di Baviera alla Conferenza sulla Sicurezza, gli ricordai quella frase. «Non avevamo fatto i conti con Cheney e Rumsfeld», mi disse sorridendo. Negli anni, l'appuntamento bavarese è stata spesso una opportunità per rivederci, l'ultima volta lo scorso febbraio dove mi raccontò della sua società di consulenza geostrategica, la WestExec Advisers.

Al Dipartimento di Stato, Blinken porta la convinzione che gli Stati Uniti debbano esercitare la loro leadership «non con l'esempio della loro forza, ma con la forza del loro esempio» (la frase, spesso ripetuta da Biden nei suoi discorsi, porta la sua firma). Ma soprattutto porta un rapporto personale fortissimo e un'intesa completa con il futuro presidente (che contempla anche disaccordi come sulla Libia nel 2011, dove Blinken si schierò con gli interventisti mentre il vicepresidente Biden, di cui era consigliere, era contrario).

È un plus importante per un segretario di Stato, qualcosa che non si vedeva dai tempi di James Baker con George Bush padre. Blinken è convinto che il primo compito della futura amministrazione sia quello di ricostruire le alleanze, la Nato in primo luogo e il rapporto con gli europei. E sta già lavorando a un vertice primaverile in Europa, Stati Uniti-Nato-Unione europea. Come ama ripetere, «ci piaccia o no, il mondo non si mette in ordine da solo».

5. La vita da romanzo della prima donna a capo dell'intelligence (che ama l'Italia)
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David Davighi e Avril Haines con Gennaro Cioffi, il proprietario del Blandis Café a Siena nel maggio 2017
editorialista
di Marilisa Palumbo

Se ci sono degli sceneggiatori là fuori, stanno sicuramente già lavorando a un film, o a una serie tv (di materiale ce n’è in abbondanza) sulla sua vita. Avril Haines, 51 anni, è stata nominata ieri dal presidente eletto Joe Biden Director of National Intelligence (Dni), coordinerà quindi le 17 agenzie di intelligence americane: è la prima donna a ricoprire questo incarico. Chi ha collaborato con lei, come il vice consigliere per la sicurezza nazionale di Barack Obama, Ben Rhodes, la definisce «probabilmente la collega più gentile che chiunque di noi abbia mai incontrato». «È la persona più premurosa e perbene con cui abbia mai avuto il piacere di lavorare», secondo Denis McDonough, allora capo dello staff del presidente.

Ma dietro la timidezza e la gentilezza c’è una biografia da capogiro. Avril Danica Haines nasce nel 1969 da una mamma scienziata diventata pittrice e un papà biochimico, professore universitario. La loro casa nell’Upper West Side di Manhattan, racconta un lungo profilo del 2013 di Newsweek, trabocca di libri, quadri (e ospiti interessanti). Ma la vita dell’intera famiglia cambia drammaticamente quando Avril ha solo quattro anni: la mamma Adrian, che soffriva di enfisema polmonare, comincia ad avere una complicazione dopo l’altra. Non ancora adolescente Avril deve impiegare gran parte delle sue giornate ad occuparsi di lei. Ha sedici anni quando Adrian muore, e lei con il papà vive ormai senza fissa dimora da amici e parenti: le enormi spese mediche li hanno costretti a vendere la casa.

Finito il liceo, Avril decide di allontanarsi da tutti e da tutto e si trasferisce per un anno in Giappone, dove diventa cintura marrone di judo alla principale scuola di Tokyo. Tornata in America si iscrive a fisica teoretica all’università di Chicago e intanto lavora come meccanico in una autofficina. In quel periodo viene investita mentre è in bici: un brutto incidente che le causa dolori ancora oggi, ma non piega il suo spirito di avventura. L’estate successiva decide di seguire un corso di volo a Princeton, dove si innamora del suo istruttore, David Davighi. Insieme provano a realizzare il sogno un po’ folle di lei: attraversare da soli in volo l’Atlantico fino all’Europa. Il loro Cessna del ’61 però comincia a perdere quota sui cieli canadesi: Avril e David azzardano con successo un atterraggio di emergenza sull’isola di Terranova, dove per una settimana vengono accuditi dagli stupiti abitanti di un piccolo villaggio.

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6. Deb Haaland, la prima nativa americana al dipartimento dell’Interno?
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editorialista
di Viviana Mazza

I Nativi chiedono a Joe Biden di affidare per la prima volta ad una di loro il dipartimento dell'Interno. Si tratta di Deb Haaland, appena rieletta deputata del New Mexico. Ad appoggiare la nomina, ci sono almeno 50 democratici alla Camera e 25 organizzazioni non solo indigene ma anche per la difesa del clima, che hanno scritto al presidente-eletto spiegando che non solo è la candidata più qualificata ma sarebbe anche una scelta storica: la prima nativa americana nel governo. Secondo diverse fonti, è un nome che il team di transizione di Biden sta prendendo in seria considerazione. Senza l'appoggio dei Nativi, Biden rischiava di non farcela in Arizona e Wisconsin, dove Donald Trump vinse nel 2016 e ha perso quest'anno per 10.400 voti e 20.600 voti rispettivamente.

I nativi americani non sono un blocco monolitico. I Lumbee della North Carolina, per esempio, hanno preferito Trump e anche tra i Navajo ci sono elettori repubblicani. Ma non c’è dubbio che la maggioranza abbia scelto Biden soprattutto per tre ragioni:

  1. la pandemia che li ha colpiti duramente e il ritardo degli aiuti federali;
  2. la decisione di Trump di ridurre drasticamente il «monumento nazionale» di Bears Ears in Utah, che Barack Obama istituì quand’era presidente;
  3. la costruzione del Muro al confine con il Messico.

Nel 2018 Deb Haaland, 59 anni, che appartiene ai Laguna Pueblo, e Sharice Davids del Kansas sono diventate le prime due donne native elette al Congresso.

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7. I rubinetti con il nome di Xi: così la Cina annuncia di aver eliminato la povertà
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Xi Jinping ama ispezionare le zone rurali per assicurarsi che la gente abbia abbastanza da mangiare
editorialista
di Guido Santevecchi
corrispondente da Pechino

Pechino, telegiornale di lunedì 23 novembre: «Le ultime nove contee afflitte da povertà assoluta nella provincia sudoccidentale del Guizhou sono state ufficialmente depennate dalla lista». Breve pausa mentre scorrono immagini di campagne coltivate, villaggi con nuove abitazioni, scuole, autostrade e linee ferroviarie poggiate su pilastri che attraversano zone montuose. Poi il mezzobusto del tg statale aggiunge: «Le nove contee del Guizhou erano le ultime sacche di povertà in tutta la Cina». Un annuncio estremamente sobrio, per dire alle masse che il Partito-Stato ha mantenuto la promessa formulata nel 2012, all'alba dell'era Xi: sradicare la povertà assoluta entro la fine del 2020, per consentire di festeggiare il centenario del comunismo cinese, nel 1921, con la proclamazione della «società moderatamente prospera».

Secondo le statistiche di Pechino, nel 2012 c'erano ancora 99 milioni di cinesi in povertà assoluta. Da ieri la categoria non esisterebbe più, perché nessun cinese ha meno di 4.000 yuan di reddito disponibile all'anno, la soglia fissata dal governo per essere classificato come non povero. Al cambio sarebbero solo 512 euro l'anno, ma in molte zone rurali della Cina è ancora una cifra sufficiente perché una persona abbia l'indispensabile. Alcuni economisti sostengono che Pechino ha fissato l'asticella troppo bassa e che se si usasse un più realistico criterio di 5 euro al giorno, ancora 373 milioni di cinesi sarebbero considerati poveri.

Ma resta il fatto che, in quarant'anni, più di 700 milioni di persone in Cina hanno finalmente avuto mezzi per vivere, non solo sopravvivere. Si calcola che il governo centrale negli ultimi dieci anni abbia speso 80 miliardi di dollari all'anno in progetti per risolvere il problema che per secoli ha afflitto le province periferiche dell'impero cinese. Il fiume di investimenti è stato speso per costruire nuovi villaggi, scuole che permettono alle famiglie di far studiare i figli, una rete di strade e ferrovie che sostiene l'economia locale.

Il tg di lunedì è stato sobrio nell'annuncio. Non per falsa modestia del Partito. Ma per due ragioni:

  1. la prima è che ai circa 300 milioni di cinesi di classe media, consumisti urbani, importa poco di quello che succede nelle remote contee di campagna e montagna;
  2. la seconda è che ai 600 milioni di cinesi che invece vivono in campagna e montagna, viene ricordato ogni giorno che il loro progresso e l'uscita dal tunnel della povertà estrema è dovuto al «socialismo con caratteristiche cinesi».

Sui rubinetti delle nuove case costruite per il piano di sradicamento dell'indigenza non è insolito trovare scritto in caratteri rossi: «Non dimenticate mai il presidente Xi Jinping, quando bevete questa acqua potabile; siate per sempre grati al Partito».

8. Il Papa definisce per la prima volta gli uiguri un popolo perseguitato
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Il papa durante una preghiera comune in Vaticano, il 30 settembre (foto Afp/Filippo Monteforte)

Papa Francesco ha definito per la prima volta i musulmani uiguri cinesi un popolo «perseguitato», una presa di posizione che gli attivisti per i diritti umani lo esortano a fare da anni. Lo ha fatto nel libro scritto in collaborazione con il giornalista britannico Austen Ivereigh, Ritorniamo a sognare, che uscirà in Italia il 1° dicembre per Piemme. A rivelarlo è Uca News, agenzia cattolica asiatica che riferisce una frase scritta da Francesco: «Penso spesso ai popoli perseguitati: i Rohingya, i poveri uiguri (e) gli yazidi», scrive il Pontefice in un passaggio, rompendo per la prima volta il silenzio sulla minoranza etnica che vive nella regione autonoma dello Xinjiang ed è sottoposta a forti violazioni dei diritti umani.

La Cina definisce «totalmente senza fondamento» le dichiarazioni di papa Francesco sugli uiguri, ha prontamente risposto il portavoce del ministero degli Esteri di Pechino, Zhao Lijian. Il governo cinese «protegge le minoranze etniche in base alla legge», ha aggiunto. Il mese scorso, Cina e Vaticano hanno esteso l'accordo preliminare sulla nomina dei vescovi raggiunto nel settembre 2018, accordo per cui il Vaticano era stato duramente attaccato dal segretario di Stato americano uscente Mike Pompeo.

9. L'arresto in Arabia Saudita del leader degli uiguri e la solidarietà della fede
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Il passaporto di Aimadoula Waili (foto middleeasteye.net)
editorialista
di Guido Olimpio

Aimadoula Waili, figura di riferimento per gli uiguri — la minoranza musulmana cinese — è stato arrestato in Arabia Saudita ed ora c’è timore che possa essere consegnato a Pechino. Arrivato mesi fa dalla Turchia per partecipare al pellegrinaggio alla Mecca è rimasto nel regno. L’episodio rappresenta una conferma. Numerosi paesi islamici, quando si tratta di fare affari e di mantenere relazioni strategiche, dimenticano la solidarietà di fede.

A volte, invece, paiono intransigenti e sensibili sui temi religiosi. Si offendono a seconda dei momenti. Negli scorsi mesi turchi, Emirati ed egiziani — secondo rivelazioni dei media — hanno detenuto uiguri per poi espellerli. Un «favore» nei confronti della Repubblica popolare che, come è noto, è stata accusata di condurre una campagna repressiva, con fermi e campi di rieducazione.

10. Un missile Houti spaventa i sauditi durante la visita segreta di Netanyahu
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Il target colpito dal missile (foto Aurora Intel)

(Guido Olimpio) I guerriglieri yemeniti Houti hanno lanciato ieri un missile da crociera contro un sito petrolifero a Gedda, in Arabia Saudita. L’ordigno — modello Qods 2 — ha coperto una distanza di circa 600 chilometri centrando il target.

  • L’attacco è coinciso con la visita del segretario di Stato americano Mike Pompeo e del premier israeliano Netanyahu. La presenza di quest’ultimo è stata poi smentita da Riad ma ampiamente confermata da altre fonti: c’è chi pensa che i sauditi non siano ancora pronti per le relazioni piene con Gerusalemme.
  • Gli insorti sciiti dimostrano ancora una volta le loro capacità belliche, accresciute dall’aiuto dell’Iran che ha fornito mezzi e tecnologia. Dispongono di un buon arsenale missilistico e di droni, un binomio che rappresenta un pericolo costante per l’avversario. Un messaggio militare evidente.
  • Il regno, nonostante lo scudo Usa e il budget per la difesa, continua ad avere problemi di sicurezza. La campagna nello Yemen, lanciata insieme a Emirati, si è rivelata un disastro.

11. Il bambino che minacciò Trump in un video dell’Isis è tornato negli Stati Uniti
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Matthew, 13 anni, dice di essere «sollevato»
editorialista
di Marta Serafini

Ha dovuto indossare una cintura esplosiva, smontare un Ak-47 ed è stato costretto a minacciare il presidente Donald Trump in un video di propaganda dall’Isis. Ma ora che è tornato a casa, Matthew, 13 anni, dice di essere «sollevato». Aveva 10 anni quando è stato portato in Siria dalla madre e dal patrigno. Ora vive con il padre negli Stati Uniti, dopo essere stato tratto in salvo dall’esercito americano. «È successo ed è finito. Adesso è tutto alle mie spalle», ha raccontato alla Bbc. «Ero così giovane che non capivo niente di ciò che mi stava capitando», ha aggiunto. Il suo patrigno, Moussa Elhassani, è morto in un attacco di droni nell’estate del 2017, mentre sua madre, Samantha Sally, è stata condannata all’inizio di questo mese per finanziamento del terrorismo e condannata a sei anni e mezzo di prigione.

È l’aprile 2015 quando Matthew entra nei territori controllati dall’Isis dalla provincia di Sanliurfa al confine con la Turchia. «Ci siamo imbattuti in un’area molto buia. Era notte, c’erano molti punti casuali di filo spinato... Non c’era molto che mi passasse per la testa tranne, “Devo correre”», ha raccontato Matthew alla Bbc e alla Pbs. A Raqqa, la città siriana autoproclamata capitale dell’Isis in Siria, il patrigno di Matthew, Elhassani, diventa un cecchino dell’Isis. Per un po’ le cose sembrano «tranquille». «C’era qualche esplosione e qualche sparo, ma niente di cui preoccuparsi», racconta il ragazzino.

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12. Il petrolio non salverà il Venezuela dalla crisi
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Una piattaforma petrolifera nel mare di Maracaibo, in una foto del 2003 (foto Afp/Juan Barreto)

(Marta Serafini) Il petrolio venezuelano? C’è ma non salverà il Paese dalla crisi. Ad esserne convinto è Pedro Burelli, ex membro della compagnia petrolifera statale venezuelana Pdvsa che ora lavora come consulente negli Stati Uniti. Parlando con il Financial Times spiega che gran parte dell’oro nero del Paese sudamericano resterà bloccato nel sottosuolo. Sotto il governo rivoluzionario socialista del presidente Nicolás Maduro, il Venezuela ha subito uno dei peggiori crolli economici del mondo in tempo di pace. Il prodotto interno lordo è crollato di oltre tre quarti negli ultimi cinque anni, secondo i dati del Fmi. Circa 5 milioni di rifugiati sono fuggiti dal paese in condizioni di estrema povertà. La cattiva gestione cronica dell'industria petrolifera nazionale e le sanzioni degli Stati Uniti sulle esportazioni hanno ridotto la produzione di greggio del Venezuela a 359.000 barili al giorno nel terzo trimestre di quest'anno, poco più di un decimo del livello raggiunto nei primi anni 2000.

Eppure il Venezuela ha le più grandi riserve di petrolio del mondo, secondo i dati dell'Opec. Una delle poche cose su cui l'onorevole Maduro e Juan Guaidó, leader dell'opposizione sostenuto da Stati Uniti e Unione europea, concordano è che la strada per la ripresa risiede in enormi investimenti per rilanciare il settore. Il progetto del «Plan País» elaborato dal team di Guaidó è inequivocabile: «Petrolio e gas sono le risorse fondamentali che la nazione ha a disposizione per iniziare la sua ricostruzione». Elías Matta, presidente della commissione per l'energia dell'Assemblea nazionale venezuelana guidata da Guaidó, ha affermato che per ricostruire la Pdvsa «ci vorranno da 8 a 10 anni e costerà da 180 a 200 miliardi di dollari per produrre 2 milioni di barili al giorno in più».

Ma anche se Maduro dovesse essere in qualche modo indotto ad andarsene gran parte della ricchezza petrolifera del paese potrebbe finire per essere inutile a causa dei drammatici cambiamenti nel settore energetico globale. «Il piano País dice:" Torniamo di nuovo all'era del petrolio ". È una premessa sbagliata. Siamo alla fine dell'era del petrolio», ha dichiarato Burelli in un discorso alla British-Venezuelan Society, sottolineando che le infrastrutture petrolifere del Venezuela sono state effettivamente distrutte e la Pdvsa è in rovina. Francisco Monaldi, esperto di petrolio venezuelano presso il Baker Institute for Public Policy della Rice University, sostiene che il numero di società internazionali che contemplano investimenti in Venezuela si sta riducendo di anno in anno.«Ci sono aziende che lasciano il Canada a causa del cambiamento climatico. Nessuno di loro prenderà in considerazione il Venezuela... la finestra per gli investimenti è troppo limitata».

13. È morto David Dinkins: non è stato solo l'unico sindaco nero di New York
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editorialista
di Matteo Persivale

Marine, avvocato, professore alla Columbia University, scrittore: la lunga vita di David Dinkins, cominciata il 10 luglio 1927 e finita ieri, 23 novembre 2020, sarebbe stata straordinaria anche se non fosse stato destinato a passare alla Storia come il primo — e finora unico — sindaco afroamericano di New York. Sarebbe miope considerare Dinkins, come è stato fatto negli anni successivi al suo breve, singolo mandato da sindaco (1990-1993), come la parentesi tra il lungo governo di Ed Koch e l’arrivo di Rudy Giuliani e della sua «tolleranza zero». E sarebbe ingiusto, oltre che falso, sostenere che Dinkins, sconfitto da Giuliani, fu il sindaco di una New York infernale poi risanata da «Rudy»: l’apice della criminalità cittadina si toccò negli anni di Koch, le statistiche dicono che i reati cominciarono a calare sotto Dinkins che fu anche il sindaco che nominò il duro Ray Kelly come police commissioner (più avanti ricevette lo stesso incarico anche da Mike Bloomberg).

Poi, certo, nel 1994 arrivò la tolleranza zero di Giuliani (e con essa gli abusi di una polizia cittadina, il Nypd, ormai refrattaria a qualsiasi critica oltre che a ogni timido tentativo di riforma), ma Dinkins fece un nobile anche se in ultima analisi non riuscito tentativo di cambiare New York. Pesa sulle sue spalle, soprattutto, la timida risposta alle rivolte di strada del 1991 a Crown Heights, Brooklyn, dopo l’investimento di due bambini afroamericani (uno morì) da parte di un’auto guidata da un ebreo ortodosso che seguiva il corteo di un famoso rabbino. Brooklyn bruciò per tre giorni, più di 100 agenti feriti e più di 100 arresti, una sorta di prova generale dei disordini che l’anno successivo avrebbero insanguinato Los Angeles.

Dinkins, buon amministratore tirato troppo per la giacchetta da ogni parte, fece scelte visionarie in anni nei quali l’economia americana fu molto poco brillante: l’accordo ricchissimo con lo Us Open e l’infrastruttura creata per la Fashion Week newyorchese che tuttora rendono miliardi a New York portano la sua firma, così come la portano numerose iniziative di assistenza sanitaria (specialmente in materia di salute mentale, fino ad allora molto trascurata).

La Storia non conosce la sottigliezza però, e passa sopra alle cose — e alle persone perbene come Dinkins — come un rullo compressore. Consola immaginare che il sindaco Dinkins, vecchio cuore democratico, visse abbastanza per vedere Rudy Giuliani, l’uomo che tanto tempo fa lo cancellò dalla politica, tenere conferenze eversive fuori da una rivendita di materiale porno a Philadelphia, e grondare tintura per capelli mentre cercava invano di rovesciare l’elezione di Joe Biden alla Casa Bianca.

Grazie per averci letto anche oggi, buona giornata!

Andrea Marinelli


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