30 ottobre 2020 - 23:12

Il nuovo romanzo di D’Avenia: «Un prof chiamato Omero. È cieco ma è l’unico che sa guardare i ragazzi»

Martedì 3 novembre esce per Mondadori «L’appello». La storia prende le mosse dal nuovo incarico che viene assegnato a Omero Romeo, insegnante che ha perso la vista. La sua cecità sarà la chiave che condurrà i ragazzi verso la conoscenza

di Roberta Scorranese

Il nuovo romanzo di D'Avenia: «Un prof chiamato Omero. È cieco ma è l'unico che sa guardare i ragazzi» Lo scrittore Alessandro D’Avenia, 43 anni
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Nel suo ultimo romanzo, «L’appello», troviamo una classe di alunni difficili e un professore cieco. Perché?
«Perché noi vediamo i ragazzi ma non li ascoltiamo, non li sentiamo. Se vogliamo cambiare davvero la scuola, dobbiamo partire da qui: restituire loro una presenza. E un nome. Una persona senza vista è in disarmo, la vita gli accade. E vede più di altri».
Alessandro D’Avenia, 43 anni, insegna Lettere al liceo e scrive romanzi e saggi di successo. Dieci anni fa, l’esordio con Bianca come il latte, rossa come il sangue. Oggi D’Avenia festeggia vent’anni di insegnamento con un romanzo (esce il 3 novembre in cui una classe-ghetto guidata da un insegnante di scienze che ha perso la vista è metafora di qualcosa di più profondo.

Omero Romeo non ci vede ma finisce per capire gli alunni meglio degli altri professori. Questo vuol dire che «gli occhi sulla scuola», tema ricorrente oggi, non bastano?
«È uno sguardo autoreferenziale, che si posa su tante cose ma non sugli stessi ragazzi. Siamo diventati esseri oculari, che guardano tutto e non vedono nulla. Il tatto? Dimenticato, anzi le mani sono associate solo alla violenza. Finiamo per non vedere l’essenziale. E per non sentire la personalità degli alunni. Non penso solo alla infinita discussione sui banchi a rotelle che ha occupato l’estate. Penso per esempio ai loro nomi. Ma lo sa che molti insegnanti nemmeno ricordano il nome degli allievi?»

Cattivi maestri?
«Cattivo sistema scolastico, direi. Se un insegnante viene mandato in una scuola per rimanerci appena tre o quattro settimane, è chiaro che non avrà voglia nemmeno di memorizzare l’appello».

Romeo, appunto, restituisce peso al loro nome con una forma originale e teatrale dell’appello. Ma come siamo arrivati a questo punto? A questa spersonalizzazione della scuola?
«Perché per molti la scuola non è quello che dovrebbe essere, cioè un luogo dove si impara la vita. Per molti genitori è un parcheggio. Sono convinto che molte delle voci indignate di fronte alla chiusura delle classi e degli istituti oggi nascano da esigenze domestiche ben più pratiche».

Ma c’è dell’altro. I colleghi di Romeo, nel romanzo, insistono su alcuni nodi e ammoniscono il prof «eretico» con raccomandazioni come: «Li conduca all’esame di Stato», «Segua il programma».
«È questo il punto più importante. In una società come la nostra, imperniata sulla produzione e ancorata all’idea di successo, la scuola per molti genitori non deve condurre i ragazzi alla crescita e farli diventare quello che sono, come avvertivano i Greci. Per molti genitori la scuola deve limitarsi a garantire successo e carriera ai figli. Un altro modo di spersonalizzarli».

Dunque non più «diventa ciò che sei», ma «diventa ciò che ti dico che devi essere».
«Sì, è come sostituire il concetto di crescita con quello di prestazione. Ma la crescita è qualcosa che accade, qualcosa che include anche l’errore e, soprattutto, la conoscenza di sé. È quello che abbiamo tolto ai ragazzi. Il risultato è una generazione molto più fragile e un numero sempre crescente di genitori che contestano gli insegnanti».

Li contestano quando non garantiscono quel successo?
«Sì, quando si mettono (secondo loro) di traverso e provano a educare. Per molti genitori i maestri che educano sono un intralcio, perché devono puntare alla prestazione. La nota, per esempio, il richiamo: sono cose che rallentano la corsa verso un ideale astratto. Ma vecchio: questa impostazione ottocentesca della scuola educava la classe dirigente di decenni fa. Oggi il lavoro è cambiato: recuperiamo allora la relazione generativa tra maestro e allievo».

In mezzo, tra genitori e insegnanti, gli studenti. Secondo molti, i più «sacrificabili» in tempo di Covid.
«Provocatoriamente l’ho scritto sul Corriere: la scuola era già chiusa prima della pandemia. Perché la scuola è prima di tutto relazione, è trasmissione di qualcosa che non è mai la stessa. Sì, noi insegnanti cambiamo e cresciamo insieme a loro, come farà Omero nel romanzo. Ecco perché dire “didattica a distanza” non ha senso».

Spieghi meglio.
«Insegnare è consegnare qualcosa, non è un meccanismo arido limitato al maestro che spiega e all’alunno che ripete. E bisogna capire che nella scuola non è il medium che fa il messaggio: il mezzo deve essere conforme a ciò che si vuole trasmettere. Poi, certo, se la relazione maestro-allievo è salda, con la fantasia si possono inventare cose nuove, anche a distanza».

Un esempio?
«Con i miei allievi abbiamo letto ad alta voce l’Odissea e loro stessi hanno inventato tappeti musicali, tracce sonore. Hanno ascoltato la propria voce, cosa che li ha fatti entrare nel mondo di Omero. Spesso a scuola si tralascia l’importanza del leggere un testo, spinti dall’impazienza dell’analisi, della spiegazione».

E così ci dimentichiamo del loro nome.
«Diventiamo quello che siamo solo quando riusciamo a scandire ad alta voce il nostro nome. Ulisse poteva permettersi di definire sé stesso “nessuno” perché sapeva benissimo chi era. Il nome ci viene consegnato dai genitori. Oggi però questa consegna è molto più fragile, perché le famiglie stesse sono più precarie. E molti giovani finiscono per vergognarsi del proprio nome, persi nel confronto con altri modelli fondati sui like dei social. Viviamo in un mondo che spinge a “farsi un nome” quando in realtà loro un nome ce l’hanno già, devono solo conoscerlo. Ci riesce un prof che non vede».

Per molti ragazzi questa clausura diventa una tentazione più che una difficoltà?
«Purtroppo sì. Vediamo anche questo. Ma l’errore grande non è stato tanto chiudere le scuole per una emergenza sanitaria, è stato riaprirle senza mettere gli insegnanti nelle giuste condizioni per lavorare; oppure ci sono ragazzi che non hanno insegnanti o ne hanno già cambiati tre».

Ci deve pur essere qualcosa di positivo.
«Vedo più genitori che si rivolgono a noi per chiedere un aiuto nel risolvere i problemi con i figli. Almeno questo».

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